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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE

Uscire per dare la vita

Martedì, 9 dicembre 2014

 

(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.281, Mar. 11/12/2014)

 

Non serve una Chiesa ridotta a «museo», ma nemmeno una struttura con «un organigramma perfetto», dove è «tutto a posto, tutto pulito» ma «manca gioia, manca festa, manca pace». Lo ha ricordato Papa Francesco durante la messa celebrata martedì mattina, 9 dicembre, a Santa Marta.

Lo spunto per la riflessione del Pontefice è venuto dalla prima lettura della liturgia del giorno, nella quale il profeta Isaia (40, 1-11) annuncia la consolazione di Dio per Israele. Questa promessa profetica attraversa tutta la storia e giunge fino a noi. Ma quando si realizza nella Chiesa?

Papa Francesco ha ricordato che, come «una persona è consolata quando sente la misericordia e il perdono del Signore, la Chiesa fa festa, è felice quando esce da se stessa». La gioia della Chiesa, dunque, «è partorire», è «uscire da se stessa per dare vita», è «andare a cercare quelle pecore che sono smarrite», testimoniando «proprio quella tenerezza del pastore, la tenerezza della madre».

Nel richiamare le parole del vangelo di Matteo (18, 12-14), il Papa ha sottolineato la spinta dinamica del pastore «che esce», che «va a cercare» la pecora che gli manca, che si è perduta. Eppure, ha sottolineato il Pontefice, questo zelante pastore «poteva fare il conto di un buon commerciante»: ne aveva 99, quindi anche smarrendone una, il bilancio tra guadagni e perdite era pur sempre in abbondante attivo. Invece, ha sottolineato Francesco, egli «ha cuore di pastore, esce a cercarla finché la trova e lì fa festa, è gioioso».

Allo stesso modo, nasce così «la gioia di uscire per cercare i fratelli e le sorelle che sono lontani: questa è la gioia della Chiesa». È proprio allora che la Chiesa «diventa madre, diventa feconda». Al contrario, ha ammonito il Pontefice, quando la Chiesa «non fa questo», allora «si ferma in se stessa, si chiude in se stessa», anche se «forse si è ben organizzata». E in questo modo diventa «una Chiesa sfiduciata, ansiosa, triste, una Chiesa che ha più di zitella che di madre; e questa Chiesa non serve, è una Chiesa da museo».

La fine del brano di Isaia riprende l’immagine del pastore che «fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna, porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri». Questa è «la gioia della Chiesa: uscire da se stessa e diventare feconda». Come al tempo di Israele, quando Isaia proclamava al popolo le parole della consolazione offerta dal Signore, così la Chiesa nel rileggere questo brano si apre alla gioia, riceve forza. Perché il popolo ha «bisogno di consolazione». La stessa presenza del Signore «consola, sempre, consola o forte o debolmente, ma sempre consola». Infatti, ha affermato il Papa, dove c’è il Signore, «c’è consolazione e pace». Anche nella tribolazione, ha aggiunto, «c’è quella pace lì, che è la presenza del Signore che consola».

Purtroppo gli uomini tendono a fuggire dalla consolazione. «Abbiamo sfiducia, siamo più comodi — ha fatto notare Francesco — nelle nostre cose, più comodi anche nelle nostre mancanze, nei nostri peccati». Questo è il terreno nel quale l’uomo si trova più a suo agio. Invece, ha sottolineato il Pontefice, «quando viene lo Spirito e viene la consolazione, ci porta a un altro stato che noi non possiamo controllare: è proprio l’abbandono nella consolazione del Signore». Ed è in questa situazione che «viene la pace, la gioia», come ricorda l’espressione «tanto bella del re Ezechia: “La mia amarezza si è trasformata in pace”, perché il Signore è andato lì a consolare». E come recita anche quel «salmo dei prigionieri a Gerusalemme, a Babilonia: “Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion, ci sembrava di sognare” — non lo credevano! —, “la nostra bocca si riempì di sorriso e la nostra lingua di gioia”».

Infatti, quando arriva «la consolazione del Signore, ci sconvolge. È lui che comanda, non noi». E la consolazione più forte è quella della misericordia e del perdono», come annuncia Isaia: «Gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Da qui l’invito del Papa a riflettere su come Dio non si faccia vincere in generosità. «Tu — ha detto — hai peccato cento, prendi duecento di gioia: ma così è la misericordia di Dio, quando viene a consolare».

Nonostante ciò, l’uomo cerca di sottrarsi, perché «questo ci dà un po’ di paura, un po’ di sfiducia: “Ma è troppo, Signore!”». Per far comprendere quanto sia infinita la misericordia di Dio, il Pontefice ha riproposto le parole del profeta Ezechiele, quando nel capitolo 16, dopo «quell’elenco di tanti peccati del popolo, ma tanti, tanti, alla fine dirà: “Ma io non ti abbandono; io ti darò di più; questa sarà la mia vendetta: la consolazione e il perdono”». È proprio così «il nostro Dio, il Dio che consola nella misericordia e nel perdono». Per questo è bene ripetere: «Lasciatevi consolare dal Signore, è l’unico che può consolarci».

Tante volte, ha aggiunto Francesco, «siamo abituati ad “affittare” consolazioni piccole, un po’ fatte da noi; ma non servono, aiutano ma non servono». Infatti, ci giova soltanto quella che «viene dal Signore col suo perdono e la nostra umiltà. Quando il cuore si fa umile, viene quella consolazione e si lascia portare avanti da questa gioia, questa pace».

Il Pontefice ha concluso con un’invocazione al Signore, perché «ci dia la grazia di lavorare, essere cristiani gioiosi nella fecondità della madre Chiesa», e ci preservi dal rischio di «cadere nell’atteggiamento di questi cristiani tristi, impazienti, sfiduciati, ansiosi, che hanno tutto perfetto nella Chiesa, ma non hanno “bambini”». Il Papa ha invitato a chiedere a Dio di consolarci con «la consolazione di una Chiesa madre che esce da se stessa» e con «la consolazione della tenerezza di Gesù e la sua misericordia nel perdono dei nostri peccati».

 



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