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PRESENTAZIONE DEI 5 VOLUMI DI "SCRITTI" (ESCRITOS) DI
P. MIGUEL ÁNGEL FIORITO S.I. (1916-2005)

Aula della Congregazione Generale della Compagnia di Gesù
Venerdì, 13 dicembre 2019

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MIGUEL ÁNGEL FIORITO S.I.

Maestro di dialogo

Papa Francesco

 

Quando padre Spadaro mi ha dato i cinque volumi con gli Escritos del Maestro Fiorito – così lo chiamavamo, familiarmente, noi gesuiti argentini e uruguayani –, mi ha parlato di una possibile presentazione. Infatti, li ha pubblicati la Civiltà Cattolica a cura di padre José Luis Narvaja. Allora a me è venuto il desiderio di esserci di persona. Gliel’ho detto subito: «E perché non far fare la presentazione a uno dei suoi discepoli?». Lui mi ha chiesto: «Chi, per esempio?». Allora gli ho risposto: «Io!». Ed eccomi qui.

Nell’introduzione José Luis approfondisce la figura di padre Fiorito come «maestro del dialogo». Quel titolo mi è piaciuto perché descrive bene il Maestro mettendo in rilievo un paradosso: Fiorito infatti parlava poco, ma aveva una grande capacità di ascolto, un ascolto capace di discernimento, che è una delle colonne del dialogo.

Rinvio quindi a quello studio preliminare, che tratta tutti gli aspetti del dialogo come padre Fiorito lo praticava e lo insegnava: il dialogo tra maestro e discepoli nello spirito comune della Scuola, il dialogo con gli autori e con i testi, il dialogo con la storia e il dialogo con Dio. Esporrò due punti che mi hanno aiutato a strutturare questa presentazione, allargando alcune riflessioni che faccio nel Prologo contenuto nel primo volume.

Parto da una espressione che Fiorito impiega nel suo articolo dal titolo «L’Accademia di Platone come Scuola ideale». L’espressione è Magister dixerit, «il Maestro direbbe»[1]. Se sorge una difficoltà che non è specificamente prevista da quello che «ha detto il Maestro», il buon discepolo, sentendosi responsabile del valore della dottrina che ha ricevuto e volendo difenderla, se la cava affermando: «Il Maestro direbbe»[2]. Mentre rileggevo vari articoli, pensavo che cosa direbbe il Maestro in una circostanza come questa. Non tanto «che cosa direbbe», in effetti, ma «come» lo direbbe. Su questo mi ha ispirato un’altra cosa che Narvaja mette in evidenza, e cioè che a Fiorito piaceva considerarsi un commentatore, nel senso preciso della parola: uno che «commenta co-pensando («com-mentum»); vale a dire pensando insieme all’(altro) autore»[3].

Quello che oggi voglio fare, pertanto, è un commento: un pensare insieme a Fiorito, insieme a Narvaja, ad alcune cose che mi hanno fatto molto bene e possono aiutare altri. Mi avvarrò dei testi liberamente, agevolato dall’ottimo lavoro che ha portato a pubblicarli tutti insieme e con l’adeguato apparato critico.

Che cosa si domanderebbe Fiorito riguardo a un’edizione dei suoi Escritos come questa? Forse in primo luogo se ne valesse la pena, dato che non è un autore conosciuto, salvo forse nell’ambito ristretto degli studiosi di sant’Ignazio. Ma credo concorderebbe sul fatto che i suoi scritti possono interessare quanti accompagnano spiritualmente e danno gli Esercizi, tutte persone desiderose di un aiuto pratico per guidare altri e per proporre gli Esercizi con più frutto.

Fiorito non ha fatto molto per farsi conoscere, ma da buon maestro ha fatto conoscere molti buoni autori ai suoi discepoli. Direi anzi che ci faceva gustare il meglio dei migliori, selezionando i testi e commentandoli sul Boletín de espiritualidad della provincia gesuitica dell’Argentina, che pubblicava ogni mese. Era un uomo sempre a caccia dei segni dei tempi, attento a ciò che lo Spirito dice alla Chiesa per il bene degli uomini, tramite la voce di una grande varietà di autori, attuali e classici. E i testi che commentava rispondevano alle preoccupazioni – non soltanto a quelle del momento, ma anche alle più profonde – e risvegliavano proposte nuove, creative. In questo senso gli pareva fruttuoso continuare a far conoscere quelli che faceva conoscere.

Credo di aver fatto il suo nome per la prima volta in un incontro con i gesuiti del Myanmar e del Bangladesh. Uno di loro, un formatore, mi aveva domandato che modello avessi da proporre a un gesuita giovane. Mi sono venute in mente due immagini. La prima riguardava una persona non molto positiva, mentre l’altra sì, ed era quella di Fiorito. Era un ingegnere, poi è entrato in Compagnia. Professore di filosofia, preside della Facoltà, ma amava la spiritualità. Insegnava a noi studenti la spiritualità di sant’Ignazio. È stato lui a insegnarci la via del discernimento»[4]. Ricordo di avere aggiunto che mi faceva piacere nominarlo proprio lì, in Myanmar, perché secondo me lui non si sarebbe mai immaginato che il suo nome venisse citato in quei luoghi così lontani. E figurarsi in un avvenimento come quello di oggi.

Eppure sarebbe ben contento, ne sono sicuro, che i suoi Escritos siano stati pubblicati da uno dei suoi discepoli. E che oggi vengano presentati da un altro di loro. Il vero maestro in senso evangelico è contento che i suoi discepoli diventino anche loro dei maestri, e a sua volta conserva sempre la sua condizione di discepolo.

Come mostra Narvaja, è stato Fiorito a trasmetterci lo «spirito di scuola» in cui «la proprietà intellettuale ha un senso comunitario», infatti «nessun discepolo si sente padrone assoluto dell’eredità del suo maestro, al punto da escluderne gli altri. Al contrario, vuole comunicarla, moltiplicando i felici possessori dello stesso tesoro spirituale. E, più ancora, vuole comunicare proprio quella stessa comunicabilità». Qui Fiorito citava la luminosa espressione di Agostino al riguardo, in De doctrina christiana: «Ogni cosa, infatti, che non si esaurisce quando la si dona, se la si possiede senza distribuirla, non la si possiede come occorrerebbe possederla» (I, 1)[5].

Il fatto stesso di presentare gli Scritti in quest’aula della Curia generalizia è per me un modo per esprimere la mia gratitudine per tutto ciò che la Compagnia di Gesù mi ha dato e ha fatto per me. Nella persona del Maestro Fiorito sono compresi tanti gesuiti che sono stati miei formatori, e qui voglio fare una menzione particolare di tanti fratelli coadiutori, Maestri con l’esempio gioioso di restare semplici servitori per tutta la vita.

Allo stesso tempo è anche un modo per ringraziare e per incoraggiare tanti uomini e donne che, fedeli al carisma dell’accompagnamento spirituale, guidano, sostengono e appoggiano i loro fratelli in quel compito che nella recente Lettera ai sacerdoti ho descritto come la strada che comporta «fare l'esperienza di sapersi discepoli»[6]. Non solo quella di esserlo, che è già tanto, ma anche di saperlo (riflettendo spesso su questa grazia per ricavarne frutto, come dice Ignazio negli Esercizi). Infatti il Signore non insegna da solo e nemmeno da una cattedra lontana, ma fa «Scuola» e insegna attorniato dai suoi discepoli che a loro volta sono maestri di altri, e in noi questa consapevolezza rende feconda la sua Parola e la moltiplica.

Nel Prologo scrivo: «L’edizione degli Escritos di padre Miguel Ángel Fiorito è motivo di consolazione per noi che siamo stati e siamo suoi discepoli e ci nutriamo dei suoi insegnamenti. Sono scritti che faranno un gran bene a tutta la Chiesa». Ne sono convinto.

Un poco di storia

Per noi gesuiti argentini rileggere i testi di questi volumi significa ripercorrere la nostra storia: comprendono settant’anni della nostra vita di famiglia e l’ordine cronologico in cui appaiono ci permette di evocarne il contesto. Non soltanto quello immediato e particolare, ma anche quello più ampio, della Chiesa universale, che Fiorito seguendo Hugo Rahner chiama «la metastoria di una spiritualità»[7]. Questo è un concetto-chiave, in Fiorito: quello della “metastoria”.

«Esiste una metastoria, che non si scopre a volte direttamente nei documenti, ma si basa sull’identità di una intelligenza mistica ed è dovuta all’azione continua di uno stesso Spirito Santo, invisibilmente presente nella sua Chiesa visibile, e che è la ragione ultima, ma trascendente, di questa omogeneità spirituale» che si dà tra cristiani diversi di epoche differenti. Fiorito fa sua la prospettiva da cui un santo che ho canonizzato di recente, John Henry Newman, contemplava la Chiesa: «La Chiesa cattolica non perde mai ciò che ha posseduto una volta [...]. Piuttosto che passare da una fase a un’altra della vita, essa si porta dietro la sua giovinezza e la sua maturità nella propria vecchiaia. La Chiesa non ha cambiato ciò che possedeva, ma lo ha accumulato e, a seconda della circostanza, estrae dal suo tesoro cose nuove o cose antiche» [8]. Viene alla mente la bella frase di Gustav Mahler: “La tradizione è la garanzia del futuro e non la custodia delle ceneri”.

In questa dinamica estraggo qui a modo di esempio alcune date e pubblicazioni significative.

Ho conosciuto Fiorito nel 1961, al ritorno dal mio juniorato in Cile. Era professore di Metafisica nel Collegio Massimo di san Giuseppe, la nostra casa di formazione a San Miguel, in provincia di Buenos Aires. Da allora cominciai a confidarmi con lui, divenne il mio direttore spirituale. Attraversava un processo profondo che lo avrebbe portato a lasciare l’insegnamento della filosofia per dedicarsi totalmente a scrivere di spiritualità e a dare Esercizi. Il volume II, nell’anno 1961-62, riporta l’articolo: «Il cristocentrismo del “Principio e fondamento” di sant’Ignazio»[9]. Mi aveva molto ispirato. È stato là che ho cominciato a prendere confidenza con alcuni autori che mi accompagnano da allora: Guardini, Hugo Rahner, col suo libro sulla genesi storica della spiritualità di sant’Ignazio[10], Fessard e la sua Dialettica degli Esercizi.

Fiorito faceva notare, in quel contesto, «la coincidenza tra l’immagine del Signore, soprattutto in san Paolo, come la spiega Guardini, e l’immagine del Signore come noi a nostra volta crediamo di trovarla negli Esercizi di sant’Ignazio»[11]. Fiorito sosteneva che il «Principio e fondamento» non contiene soltanto un cristocentrismo, ma una vera e propria «Cristologia in germe». E mostrava che quando sant’Ignazio usa l’espressione «Dio nostro Signore» sta parlando concretamente di Cristo, del Verbo fatto carne, Signore non soltanto della storia ma anche della nostra vita pratica.

Voglio sottolineare anche la figura di Hugo Rahner. Non posso fare a meno di trascrivere un passo in cui il Maestro, che era di poche parole e ancora di più nel parlare di sé, narra la sua conversione alla spiritualità. Lo racconto perché ha segnato una tappa della vita della nostra Provincia e segna ciò che nel mio pontificato concerne il discernimento e l’accompagnamento spirituale.

Scriveva Fiorito nel 1956: «Da parte mia, confesso che da tempo rifletto sulla spiritualità ignaziana. Per lo meno fin da quando ho fatto con serietà i miei primi Esercizi spirituali, sentendo un avvicendarsi di spiriti contrari, che a poco a poco andavano personalizzandosi nei due termini di una scelta personale». Quella riflessione proseguì «Fino a che la lettura di un libro, arrivato nelle mie mani nel modo più banale e prosaico – come libro di lettura per imparare il tedesco – è stata per me non tanto la rivelazione luminosa di una possibilità di espressione, ma l’espressione compiuta di quell’ideale da tempo intuito». Fiorito aggiunge: «Quello che avrebbe dovuto essere il mio lavoro di molti anni, era l’istantanea accettazione dei risultati di un lavoro altrui», quello di Hugo Rahner.

Nell’anima del maestro, e poi in quella di molti altri, Hugo Rahner fece sì che prendessero posto tre grazie: quella del «magis ignaziano, che era il suggello e la portata dell’anima di Ignazio e il confine senza limite delle sue aspirazioni; quella del discernimento degli spiriti, che permetteva al santo di incanalare tanta potenza senza esperimenti inutili e senza inciampi. E quella della charitas discreta, che così affiorava nell’anima di Ignazio come contributo personale alla lotta in corso tra Cristo e Satana; e quel fronte di battaglia non era esterno al santo, ma passava nel mezzo della sua anima, divisa pertanto in due “io” che erano le due uniche alternative possibili per la sua opzione fondamentale»[12]. Da qui Fiorito trarrà non soltanto il contenuto, ma anche lo stile dei suoi «commenti», come dicevamo all’inizio.

Un’altra data: 1983. Fu l’anno della XXXIII Congregazione generale, in cui ascoltammo le ultime omelie di padre Arrupe. Fiorito scrisse di «Paternità e discrezione spirituale»[13]. Riprendo quell’articolo perché vi dà una definizione di ciò che intende quando usa il termine «spirituale». L’ho usato parlando della sua conversione «alla spiritualità» e mi pare utile recuperarne la definizione, in quanto oggi spesso si sente interpretare questa parola in modo riduttivo. Fiorito la riprendeva da Origene, per il quale «l’uomo spirituale è quello in cui si uniscono “teoria” e “pratica”, cura del prossimo e carisma spirituale per il bene del prossimo. E tra questi carismi», mostrava Fiorito, «Origene rimarca soprattutto quel carisma che chiama diakrisis, ovvero il dono di discernere la varietà di spiriti»...[14]. Nell’articolo Fiorito approfondisce ciò che è la paternità e maternità spirituale e ciò che comporta. Che cosa serve per farla propria? Se lo domanda e risponde: «Avere due carismi: il discernimento degli spiriti, o discrezione, e riuscire a comunicarlo con le parole nella conversazione spirituale»[15]. Non basta il discernimento, «bisogna saper esprimere le idee giuste e discrete; altrimenti non sono al servizio degli altri»[16]. Questo è il carisma della «profezia», inteso non come conoscenza del futuro ma come comunicazione di un’esperienza spirituale personale.

L’ultima volta che l’ho visto – questo non posso dimenticarlo – è stato poco prima della sua morte, avvenuta il 9 agosto 2005. Ricordo che era un mattino di domenica e che il suo compleanno era trascorso da poco. Lui faceva il compleanno il giorno di Santa Maria Maddalena, il 22 luglio. Era ricoverato all’Hospital Alemán. Ormai da vari anni non parlava più. Aveva perso la capacità di parlare. Guardava soltanto. Intensamente. E piangeva. Con lacrime tranquille che comunicavano l’intensità con cui viveva ogni singolo incontro. Fiorito aveva il dono delle lacrime, che è espressione di consolazione spirituale[17].

Parlando dello sguardo del Signore nella prima settimana degli Esercizi, Fiorito commentava l’importanza che san Benedetto dava alle lacrime e diceva che «le lacrime sono un piccolo segno tangibile della dolcezza di Dio che a malapena si manifesta all’esterno, ma non cessa di impregnare il cuore nel raccoglimento interiore»[18].

Mi nasce nel cuore una cosa che ho scritto in Gaudete et exsultate: «La persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice. Quella persona è consolata, ma con la consolazione di Gesù e non con quella del mondo» (GE76).

Un aneddoto simpatico. Aveva anche il dono dello sbadiglio. Mentre gli aprivi la tua coscienza, a volte il Maestro cominciava a sbadigliare. Lo faceva apertamente, senza nasconderlo. Ma non è che si stesse annoiando, semplicemente gli veniva e lui diceva che a volte serviva a «tirarti fuori il cattivo spirito». Espandendo l’anima contagiosamente, come fa lo sbadiglio a livello fisico, aveva quell’effetto al livello spirituale.

Maestro del dialogo

Commento liberamente alcune cose che mi suggerisce il titolo di «Maestro del dialogo». Nella Compagnia quello di «maestro» è un nome particolare, lo riserviamo al Maestro dei novizi e all’Istruttore di terza probazione. Il Padre Generale lo aveva nominato appunto Istruttore di terza probazione, compito che mantenne per molti anni. Non è mai stato Maestro dei novizi, ma da Provinciale lo assegnai a vivere nel noviziato; era un buon consigliere per il Maestro e un riferimento per i novizi.

Essere maestro, esercitare il munus docendi, non consiste soltanto nel trasmettere il contenuto degli insegnamenti del Signore, nella loro purezza e integrità, ma nel far sì che questi insegnamenti, inculcati con lo stesso Spirito con cui li si riceve, «facciano discepoli», cioè trasformino coloro che li ascoltano in seguaci di Gesù, in discepoli missionari, liberi, non proseliti, appassionati a ricevere, praticare e uscire ad annunziare gli insegnamenti dell’unico Maestro come lui ci ha comandato: agli uomini e alle donne di tutti i popoli.

Il vero maestro, nel senso evangelico, è sempre discepolo: mai finisce di esserlo. Il Signore, in Luca, parlando dei ciechi che vogliono guidare altri ciechi, dando così un’immagine dell’«anti-maestro», dice: «Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro» (Lc 6,40).

Mi piace leggere così questo passo: non mettersi al di sopra del maestro non è soltanto non mettersi al di sopra di Gesù – il nostro unico Maestro –, ma nemmeno metterci al di sopra dei nostri maestri umani. Il buon discepolo onora il maestro, anche quando da discepoli ci succede di oltrepassarlo in qualche insegnamento, o piuttosto proprio in quello: il progresso nella conoscenza infatti è possibile perché il buon maestro ha seminato la semente, col suo stile personale, proprio contando sul fatto che quel seme viva, cresca e lo superi. E quando noi discerniamo bene ciò che dice lo Spirito applicando il Vangelo nel momento e nel modo opportuno per la salvezza di qualcuno, siamo «come il maestro». Il Signore accosta quest’affermazione a quel tipo di insegnamento che non è fatto soltanto di parole, ma di opere di misericordia. È stato al momento della lavanda dei piedi che il Maestro l’ha detto: se, sapendo queste cose, operiamo come Lui, saremo come Lui (cfr Gv 13,14-15).

A proposito della misericordia, gli scritti di Fiorito distillano misericordia spirituale: insegnamenti per chi non sa, buoni consigli per chi ne ha bisogno, correzione per chi sbaglia, consolazione per chi è triste e aiuti per conservare la pazienza nella desolazione «senza mai fare cambiamenti», come dice sant’Ignazio. Tutte queste grazie si aggregano e si sintetizzano nella grande opera di misericordia spirituale che è il discernimento. Esso ci guarisce dalla malattia più triste e degna di compassione: la cecità spirituale, che ci impedisce di riconoscere il tempo di Dio, il tempo della sua visita.

Alcune caratteristiche particolari del Maestro Fiorito

Descriverei una caratteristica molto evidente di Fiorito con questa espressione: nell’accompagnamento spirituale, quando gli raccontavi le tue cose, lui «si teneva fuori». Ti rispecchiava quanto ti accadeva e poi ti dava libertà, senza esortare e senza dare giudizi. Ti rispettava. Credeva nella libertà.

Quando dico che «si teneva fuori» non intendo che non si interessasse o che non si commuovesse per le tue cose, ma che ne restava fuori, in primo luogo, per riuscire ad ascoltare bene. Fiorito era maestro del dialogo in primo luogo con l’ascolto. Tenersi fuori dal problema era il suo modo di dare spazio all’ascolto, affinché si potesse dire tutto ciò che si aveva dentro, senza interruzioni, senza domande... Ti lasciava parlare. E non guardava l’orologio.

Ascoltava mettendo il cuore a disposizione, affinché l’altro potesse sentire, nella pace che aveva il Maestro, ciò che inquietava il proprio cuore. E in questo modo ti veniva voglia di «andare a conferire con Fiorito», come dicevamo, di «andare a raccontargli», ogni volta che sentivi lotta spirituale nell’intimo, movimenti contrastanti di spiriti riguardo a qualche decisione che dovevi affrontare. Sapevamo che ad ascoltare queste cose si appassionava come o più di quanto si appassionano le persone normali a sentire le ultime notizie. Al Collegio Massimo, quella di andare a conferire con Fiorito era una frase ricorrente. La dicevamo ai superiori, ce la dicevamo fra di noi e lo raccomandavamo a quelli che erano in formazione.

Il suo «tenersi fuori», oltre che una questione di ascolto, era anche un atteggiamento di padronanza verso i conflitti, un modo di prenderne le distanze per non restarne coinvolto, come spesso accade, col risultato che chi dovrebbe ascoltare e aiutare invece diventi parte del problema, prendendo posizione o mescolando i propri sentimenti e perdendo obiettività.

In questo senso, senza pretese teoretiche, ma in modo pratico, Fiorito è stato il grande «disideologizzatore» della Provincia in un’epoca molto ideologizzata.

Ha disideologizzato risvegliando la passione a dialogare bene, con se stessi, con gli altri e con il Signore. E a «non dialogare» con la tentazione, a non dialogare con lo spirito cattivo, con il Maligno. Questo è rimasto tanto impresso in me: con il diavolo non si dialoga. Gesù mai ha dialogato con il diavolo. Gli ha risposto con tre versetti della Bibbia, e poi lo ha cacciato via. Mai. Con il diavolo non si dialoga.

L’ideologia è sempre un monologo con una sola idea e Fiorito aiutava il suo interlocutore a distinguere dentro di sé le voci del bene e del male dalla sua propria voce, e ciò apriva la mente perché apriva il cuore a Dio e agli altri.

Nel dialogo con gli altri aveva fra l’altro l’abilità di «pescare» e di far vedere all’altro la tentazione dello spirito cattivo in una parola o in un gesto, di quelli che s’infilano in mezzo a un discorso molto ragionevole e in apparenza benintenzionato. Fiorito ti domandava di «quell’espressione che hai usato» (che generalmente denotava disprezzo per altri) e ti diceva: «Sei tentato!» e, mostrando l’evidenza, rideva con franchezza e senza scandalizzarsi. Ti esibiva l’oggettività dell’espressione che tu stesso avevi usato, senza giudicarti.

Si può dire che il Maestro coltivava il dialogo comunitario nella sua conversazione personale con ciascuno. Non era molto incline a intervenire in pubblico. Nelle riunioni comunitarie a cui partecipava si dedicava a prendere appunti, ascoltando in silenzio. E poi «rispondeva» – e noi eravamo tutti in attesa – con il tema del successivo Boletín de espiritualidad o in qualche foglietto di «Studio, preghiera e azione». In qualche modo questo lo si sapeva e lo si trasmetteva, e ci si andava a leggere nel Boletín «quello che ne pensava il Maestro» sui temi che ci preoccupavano o che erano in auge, leggendo «tra le righe».

D’altra parte, non sempre il Boletín era necessariamente legato alle circostanze. Ci sono scritti, come l’articolo di Fiorito sull’Accademia di Platone da cui Narvaja ha tratto spunto per la sua analisi, che oggi sono attuali e permettono di «leggere» tutta la nostra epoca nella chiave della relazione tra maestro e discepoli secondo lo spirito della Scuola.

Fiorito si preoccupava che nella Provincia e nella comunità ci fosse buono spirito. Se c’era buono spirito, allora non soltanto «lasciava andare», ma scriveva di qualcosa che «invitava ad andare oltre». Apriva orizzonti.

Inoltre, questo «tenersi fuori» si può descrivere anche mostrando come ci si riesce: «mantenendosi in pace» affinché sia il Signore stesso a «muovere» l’altro, a smuoverlo nel senso buono, e anche a pacificarlo nell’agire bene.

Si tratta di un attivo mantenersi in pace, respingendo le proprie tentazioni contro la pace per aiutare l’altro a pacificare le sue: quelle della sua colpa e del rimorso per il passato, quella dell’ansia per il futuro (i futuribili) e quelle dell’inquietudine e della distrazione nel presente. Fiorito ti pacificava non curandosi delle circostanze immediate. Prima ti pacificava col suo silenzio, col non spaventarsi di nulla, con il suo ascolto di ampio respiro, finché non avevi detto quello che avevi in fondo all’anima e lui decideva quello che gli ispirava lo spirito buono. Allora il Maestro ti confermava, a volte con un semplice «Va bene». Ti lasciava libero.

A chi dà gli Esercizi e deve guidare un altro, Ignazio consiglia che «non si avvicini né propenda all'una o all'altra parte, ma resti in equilibrio come il peso sul braccio di una stadera, e lasci che il Creatore agisca direttamente con la creatura, e la creatura con il suo Creatore e Signore» (ES 15). Sebbene al di fuori degli Esercizi «muovere l’altro» sia lecito, Fiorito privilegiava l’atteggiamento di non propendere per una parte o per l’altra, affinché «sia lo stesso Creatore e Signore a comunicarsi alla persona, abbracciandola nel suo amore e alla sua lode, e disponendola alla via nella quale potrà meglio servirlo in futuro». Grazie a questo «mantenersi fuori» era di riferimento per tutti senza la minima ombra di parzialità. E di certo, al momento opportuno, quando chi stava facendo Esercizi con lui ne aveva bisogno – fosse perché era bloccato da qualche tentazione o perché al contrario si trovava in una buona disposizione per fare la sua «elezione» – il Maestro interveniva con forza e decisione per dire la sua e poi, di nuovo, «si teneva fuori», lasciando che Dio operasse in chi svolgeva gli Esercizi.

In questo senso posso dire che sapeva mettere gli accenti. Ne ha incisi a fuoco alcuni nella Provincia, impressi come un marchio. Per esempio: che la lotta spirituale, il movimento di spiriti, è buon segno; che proporre «qualcosa di più» muove gli spiriti, quando nella situazione c’è una calma sospetta; che bisogna cercare sempre la pace in fondo all’anima per riuscire a discernere questi movimenti di spiriti senza che «l’acqua sia troppo mossa»... Quel «non lasciarsi rimpicciolire dalle cose grandi, e tuttavia lasciarsi contenere in quelle più piccole, questo è divino»[19], che caratterizza Ignazio, era sempre presente nelle sue riflessioni.

Una seconda caratteristica: non esortava. Ti ascoltava in silenzio e poi, invece di parlare, ti dava un «foglietto» che prendeva dalla sua biblioteca. La biblioteca di Fiorito aveva questa particolarità: oltre alla parte consueta, per così dire, con scaffali e libri, ne aveva un’altra che occupava tutta una parete di quasi sei metri per quattro in altezza, formata di cassettini in ciascuno dei quali classificava e metteva i suoi «foglietti», schede di studio, preghiera e azione, ciascuna dedicata a un solo tema degli Esercizi o delle Costituzioni della Compagnia, per esempio. Lui si alzava a cercarle, a volte montando pericolosamente su una scala, per darle senza tante parole a chi faceva gli Esercizi in risposta a qualche inquietudine che quest’ultimo gli aveva manifestato o su cui lui stesso aveva fatto discernimento mentre lo ascoltava parlare delle sue cose.

In quei cassettini, ciascuno con i suoi foglietti, c’era qualcosa... Era come se quel consiglio di cui avevi bisogno, o il rimedio per qualche malattia dell’anima, fosse già previsto da sempre... Quella biblioteca richiamava una farmacia. E Fiorito assomigliava a un saggio farmacista dell’anima. Ma era più di questo, perché Fiorito non era un confessore. Certo, confessava, ma aveva un altro carisma oltre a questo di essere ministro della misericordia del Signore che è comune a ogni sacerdote. È quel carisma dell’uomo spirituale di cui parlavo all’inizio, citando Origene: il carisma del discernimento e della profezia, nel senso di comunicare bene le grazie del Signore che si sperimentano nella propria vita. Infatti da quei cassettini non uscivano soltanto rimedi ma soprattutto cose nuove, cose dello Spirito che erano state in attesa della domanda giusta, del desiderio fervido di qualcuno, il quale là trovava il tesoro di una formulazione discreta che lo indirizzasse e che avrebbe potuto mettere in pratica con frutto per il futuro.

Una terza caratteristica che ricordo è che il Maestro Fiorito non era geloso. Non era un uomo geloso: scriveva e firmava con altri, pubblicava ed evidenziava il pensiero di altri, limitando molto spesso il suo a semplici note, che in realtà, come ora si può vedere meglio grazie a questa edizione dei suoi Escritos, erano di somma importanza, perché facevano vedere l’essenziale e l’attualità del pensiero altrui.

L’esempio più compiuto della fecondità di questo modo di lavorare intellettualmente in Scuola è, a mio giudizio, l’edizione annotata e commentata delle Memorie spirituali di Pierre Favre che Fiorito curò insieme a Jaime Amadeo. Un vero e proprio classico. Senza tratti di ideologia né di quell’erudizione che è soltanto per eruditi, è un’opera che ci mette in contatto con l’anima di Favre, con la sua limpidezza e dolcezza, con la sua capacità dialogica verso tutti, frutto della sua discrezione spirituale, e con la sua maestria nel dare gli Esercizi. Il Maestro condivideva molta della sensibilità di Favre, in tensione polare con una mente in effetti piuttosto fredda e oggettiva, da ingegnere qual era.

La quarta caratteristica che mi pare necessario commentare, in questo tentativo di presentare la sua figura, è che non dava giudizi. Soltanto di rado. Con me, che io ricordi, lo ha fatto due volte. E il modo mi è rimasto inciso. Ecco come dava il giudizio. Ti diceva: «Guardi che quanto lei dice è uguale a quello che dice la Bibbia, a questa tentazione che c’è nella Bibbia». E poi lasciava che tu pregassi e traessi le conseguenze.

Qui voglio sottolineare che Fiorito aveva una particolare naso per «sentire» il cattivo spirito; sapeva riconoscerne l’azione, distinguerne i tic, smascherarlo dai frutti cattivi, dal retrogusto amaro e dalla scia di desolazione che si lascia dietro. In questo senso, si può dire che è stato un uomo in armi contro un solo nemico: lo spirito cattivo, Satana, il demonio, il tentatore, l’accusatore, il nemico della nostra natura umana. Tra la bandiera di Cristo e quella di Satana, ha fatto la sua scelta personale per nostro Signore. In tutto il resto ha cercato di discernere il «tanto... quanto» e con ogni persona è stato un padre amabile, un maestro paziente e – quando è capitato – un avversario fermo, ma sempre rispettoso e leale. Mai un nemico.

Infine, una cosa che in lui si notava molto. Con i «testa dura» aveva tanta pazienza. Davanti a quei casi, che spazientivano altri, soleva ricordare che Ignazio era stato molto paziente con Simón Rodríguez. Se eri testardo e insistevi a modo tuo, ti lasciava fare il tuo processo, ti dava tempo. Era un Maestro nel non affrettare i tempi, nell’attendere che l’altro si rendesse conto delle cose da solo. Rispettava i processi.

E visto che ho citato Simón Rodríguez, può venire a proposito ricordarne la vicenda. Simón Rodríguez fu sempre una persona «agitata». Non fece il mese intero in solitudine con gli altri, tardò a fare la professione. Era destinato ad andare in India ma alla fine rimase in Portogallo, dove fece tutto il possibile per fermarsi per sempre nonostante che Ignazio, per il suo bene e per quello dei gesuiti di là, volesse trasferirlo. Fiorito racconta che Ribadeneyra, in un manoscritto inedito intitolato Trattato delle persecuzioni che ha subito la Compagnia di Gesù, considera che «una delle più terribili e pericolose tormente attraversate dalla Compagnia, dalla sua fondazione, mentre ancora viveva il nostro beato padre Ignazio, fu una che era stata mossa non dai nemici, ma dai suoi stessi figli, non dai venti esterni, ma dal turbamento intrinseco dello stesso mare, che accadde in questo modo. [...] Mentre la Compagnia navigava con venti tanto favorevoli, il nemico di ogni bene la agitò, tentando lo stesso padre Simón e offuscandolo con quel frutto che Dio aveva operato per lui, e facendo sì che volesse per sé ciò che era del suo beato padre Ignazio e di tutta la Compagnia. Cominciò quindi a guardare le cose del Portogallo non come un’opera di questo corpo, ma come creazione e opera sua e voleva governarla senza l’obbedienza e la dipendenza dal suo capo, sembrandogli di avere nei re del Portogallo tanto favore che avrebbe potuto facilmente farlo senza più ricorrere a Roma; e siccome quasi tutti i religiosi della Compagnia che vivevano in quel regno erano figli e sudditi suoi e lui li aveva accolti e allevati, non conoscevano altro Padre e Superiore se non il Maestro Simón, e lo amavano e lo rispettavano come se fosse lui il principale fondatore della Compagnia; e a ciò contribuiva anche il fatto che lui era di modi gentili e amorosi e non solito a pressare molto i suoi; queste sono cose efficaci per conquistarsi gli animi e le volontà dei sudditi, che, per comune debolezza umana, desiderano abitualmente che si conceda loro ciò che vogliono, e venire condotti con amore» [20].

Ignazio era molto paziente. E Fiorito lo imitava. Perfino in questi racconti era capace di vedere del buono in Simón Rodríguez. Ne sottolineava la franchezza verso Ignazio, al quale diceva le cose in faccia. Di certo quella pazienza alla lunga diede i suoi frutti, perché di fatto le «ribellioni» di Simón Rodríguez sono rimaste aneddotiche, e non si sono consolidate o hanno preso piede oltre lui stesso, e ci hanno fruttato lettere come quella di sant’Ignazio ai gesuiti di Coimbra. Questa grande pazienza è la virtù fondamentale del vero Maestro, che conta sull’azione dello Spirito Santo nel tempo, e non sulla propria.

Conclusione

Come Provinciale, ho dovuto ricevere il racconto di coscienza annuale del Padre Fiorito. Era un novizio. Un novizio maturo. Era il discepolo del padre che era a sua volta il proprio discepolo. Non riesco a capirlo, ma era la testimonianza della sua grandezza di anima. Come gesuita, al Maestro Miguel Ángel Fiorito si attaglia l’immagine del Salmo 1, quella dell’albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà fiori e frutto a suo tempo. Come quest’albero della Scrittura, Fiorito ha saputo lasciarsi contenere nel minimo spazio del suo ruolo al Collegio Massimo di san Giuseppe, a San Miguel, in Argentina, e là ha messo radici e ha dato fiori e frutto, come ben esprime il suo nome – Fiorito -, nei cuori di noi discepoli della Scuola degli Esercizi. Spero che adesso, grazie a questa magnifica edizione dei suoi Escritos, che hanno l’altezza di un grande sogno, metterà radici e darà fiori e frutti nella vita di tante persone che si nutrono della stessa grazia che lui ha ricevuto e ha saputo comunicare discretamente dando e commentando gli Esercizi spirituali.

 

 
 

[1] M. A. Fiorito, Escritos I (1952-1959), Roma, La Civiltà Cattolica, 2019, 188. (Citerò Escritos, n. del volume e n. di pagina).

[2] Cfr. J. L. Narvaja, «Introducción», Escritos I, 16.

[3] Ivi, 20-21.

[4] Cfr. Francesco, «Essere nei crocevia della storia», Conversazioni con i gesuiti del Myanmar e del Bangladesh, La Civiltà Cattolica, 2017 IV, 525.

[5] Escritos I, 18.

[6] Lettera del Santo Padre Francesco ai sacerdoti in occasione del 160° anniversario della morte del santo Curato d'Ars, 4 agosto 2019.

[7] Escritos I, cit., 165-170.

[8] J. H. Newman, La mission de saint Benoît, Paris, 1909, 10.

[9] Escritos II, 27-51.

[10] Escritos I, 164.

[11] Escritos I, 51, nota 88.

[12] Escritos I, 163-164.

[13] Escritos V, 176-189.

[14] Escritos V, 177.

[15] Escritos V, 179.

[16] Escritos V, 181.

[17] «Si intende per consolazione quando [...] l'anima si infiamma di amore per il suo Creatore e Signore [...] così pure quando uno versa lacrime che lo portano all'amore del Signore» (ES 316).

[18] M. A. Fiorito, Buscar y hallar la voluntad de Dios, Buenos Aires, Paulinas, 2000, 209.

[19] Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimum, divinum est.

[20] Escritos V, 157, nota 85.

 



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