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VISITA PASTORALE AL MONASTERO DI FONTE AVELLANA

SANTA MESSA NELLA CHIESA DI SANTA CROCE

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Serra Sant'Abbondio (Pesaro), 5 settembre 1982

 

Carissimi fratelli e sorelle.

“Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto” (Is 35, 5-6).

1. Con la descrizione di queste scene gioiose presentateci dal profeta Isaia per annunciare la felicità dei tempi messianici, mi rivolgo a voi, carissimi fratelli e sorelle, per manifestarvi, a mia volta, la profonda gioia di celebrare quest’oggi l’Eucaristia con voi davanti a questa vetusta Chiesa di santa Croce di Fonte Avellana, che con la sua linea scarna, essenziale, espressa nella solidità della nuda pietra, suscita nel cuore il senso dell’eterno e la certezza delle cose del cielo. Già la stessa purezza del mistico paesaggio, in cui questo insigne Eremo è incastonato, è tale da predisporre l’animo alla meditazione ed all’adorazione di Dio, la cui infinita perfezione è riflessa nelle bellezze del creato.

Sono venuto a dissetarmi a questa fontana di spiritualità, in questa atmosfera in cui tutto è richiamo ai valori dello spirito. Qui dove regna il silenzio e domina la pace, Dio parla al cuore dell’uomo.

Saluto con sincero affetto la Comunità camaldolese incominciando dal loro Priore Generale, Padre Benedetto Calati; saluto in modo speciale il Cardinale Palazzini e tutti i Vescovi presenti, con particolare pensiero a Monsignor Costanzo Micci, il quale, come Vescovo locale, ha pure tanto auspicato questa visita; saluto con deferenza le Autorità politiche e civili della Regione marchigiana e della Provincia.

Saluto tutti i fedeli e i pellegrini, qui convenuti, per dare testimonianza della loro fede cristiana e per esprimere il loro attaccamento al successore di Pietro. A tutti dico: Sia lodato Gesù Cristo!

2. Al centro del Vangelo odierno è posta la figura del sordomuto che ottiene la guarigione. Gesù “allontanandolo, in disparte dalla folla, gli pose le dita nelle orecchie e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effathà”, cioè “apriti!”. E subito gli si aprirono le orecchie, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente” (Mc 7, 33-35).

Nel compiere questo miracolo, Gesù, con gesto significativo, prende il sordomuto e lo porta lontano dalla folla: là gli ridona la salute! L’“Effathà”, cioè il modo più fruttuoso per aprirsi a Cristo e per conseguire la salvezza avviene sempre in un incontro strettamente personale fra l’uomo e Dio.

Per essere vero seguace di Cristo occorre sapersi appartare, lasciarsi toccare da lui e aprirsi alla sua parola, ai suoi richiami e alla sua grazia santificante.

Mi sembra che nella vocazione camaldolese, che nel corso dei secoli ha trovato in Fonte Avellana uno dei più chiari e stabili punti di riferimento, si compia in modo particolare l’“Effathà” di Cristo, in quanto i Monaci scelgono di appartarsi, nel silenzio e nella solitudine, per meglio aprirsi con lo spirito alle realtà invisibili dei misteri di Dio. Così facendo essi si pongono a contatto diretto con Cristo ed occupano un posto eminente nella Chiesa, suo mistico Corpo, perché “offrono a Dio un eccellente sacrificio di lode e con assai copiosi frutti di santità onorano il Popolo di Dio e lo muovono con l’esempio, come pure gli danno incremento con misteriosa fecondità apostolica.

Perciò sono una gloria per la Chiesa e una sorgente di grazie celesti” (Perfectae Caritatis, 7).

3. Come in ogni vita contemplativa, anche nella vocazione camaldolese l’impegno principale dei Monaci consiste nella lode di Dio, e cioè nell’esaltare, magnificare e riconoscere la sua superiorità, il suo amore, la sua fedeltà, la sua giustizia e il suo meraviglioso disegno di salvezza. È bello pensare alla lode che da più di un millennio sale ininterrottamente a Dio da questo Monastero ad opera di generazioni e generazioni di Monaci che hanno fatto del Salterio il loro canto ufficiale sulle note immortali delle melodie gregoriane. Quella lode che i Monaci hanno poco fa espressa al Signore, manifestando le grandi opere che egli non cessa di compiere attraverso i secoli, quando, come abbiamo sentito dal Salmo responsoriale, “libera i prigionieri, ridona la vista ai ciechi, rialza chi è caduto, ama i giusti, protegge lo straniero, sostiene l’orfano e la vedova, sconvolge le vie degli empi” (cf. Sal 145).

Sono questi altrettanti motivi per i quali si deve dar lode perenne a Dio e per cui i Monaci lasciano il mondo per consacrare a lui la propria vita. E consiste in ciò l’essenza della vita contemplativa, giacché è dalla fervente preghiera di lode a Dio che soprattutto saranno resi fecondi gli sforzi della Chiesa per comunicare al mondo la salvezza operata dal Redentore divino sulla Croce. Per questo gli Istituti di vita contemplativa hanno una parte notevole anche nella evangelizzazione del mondo.

4. Questa forma di vita comporta per il religioso uno svuotamento ed un rinnegamento di sé, sull’esempio del Cristo, il quale “spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2, 7).

Comporta il distacco dai beni di questo mondo, che ci incatenano alla terra, non permettendoci di sollevare lo sguardo per conferire col Signore. Comporta la scelta della povertà evangelica, che libera l’anima dalle preoccupazioni del mondo e la rende disponibile ad accogliere i doni dall’Alto.

Per questo, come dice san Paolo, “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1 Cor 1, 27). E san Giacomo nella seconda lettura di questa liturgia così ci interpella: “Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del Regno che ha promesso a quelli che lo amano?” (Gc 2, 5). Giacomo, nell’affermare ciò, pensava sicuramente alle parole di Gesù: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5, 3). È in Gesù infatti che si è rivelato, in tutta la sua luce, il valore della scelta che Dio fa dei poveri, avendo egli sposato la loro sorte e la loro causa. È stato povero lui stesso ed ha additato nei poveri i destinatari privilegiati del suo Vangelo, essendo stato “mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4, 18). Gesù ama e predilige coloro che scelgono la povertà evangelica, perché essa è il terreno “buono” sul quale la parola attecchisce, si sviluppa e porta frutto e perché sa “quant’è difficile per coloro che possiedono ricchezze entrare nel Regno di Dio” (Lc 18, 24).

I Monaci, vivendo in pienezza questa beatitudine evangelica della povertà, sono gli eredi di questo Regno, di cui annunciano la buona novella non solo con la predicazione, ma soprattutto con l’imitazione di Cristo povero, vergine ed obbediente fino alla morte.

5. Solitudine, apertura a Dio, povertà evangelica: sono queste le considerazioni che oggi salgono dalle pagine sacre che abbiamo poco fa proclamate, ma sono anche altrettanti ideali a cui si sono ispirati in questi mille anni i Monaci di questa Abbazia di Fonte Avellana, resa celebre, per profondità di sapere e per santità di vita, da innumerevoli religiosi, tra cui spicca la grande figura di san Pier Damiani, eremita, Dottore della Chiesa. Fu appunto lui a dare un’impronta durevole alla Fondazione avellanita di ispirazione romualdina e a concretizzare la prassi di vita in regole scritte e in ordinamenti giuridici, avendo a cuore la salvaguardia della solitudine del luogo, la sua autonomia e la libertà dell’Eremo dalle ingerenze esterne. Con la fondazione poi di nuovi Eremi e di altri tre Monasteri gettò le fondamenta di questa Congregazione, facendo delle varie Comunità quasi un unico corpo, mediante la fusione degli elementi essenziali dell’Anacoretismo orientale e del Cenobitismo benedettino. Grande riformatore e moralista, egli fu accanto a sei Papi, che si distinsero soprattutto nella lotta per l’integrità della Chiesa e per la dignità del sacerdozio. Ma quello che più desiderò san Pier Damiani fu la pace del suo quieto Monastero di Fonte Avellana, dove non appena gli era possibile, ritornava in veste di semplice monaco, rinunciando a tutti gli onori che gli derivavano dalla sua dignità di Vescovo e Cardinale, e da dove ripartiva, in spirito di obbedienza, non appena si richiedeva la sua opera di pacificatore, in un’epoca storica così travagliata e divisa da rivalità e guerre intestine.

Seguendo le orme del suo grande maestro l’Abate san Romualdo, ravennate come lui, egli, in un periodo in cui la Chiesa era afflitta da gravi mali, intravide, come antidoto, la necessità di una vita religiosa dedita prevalentemente alla contemplazione ed alla solitudine, affermando il primato della ricerca di Dio su tutti i valori contingenti.

La storia di questa Abbazia nasce e si sviluppa all’ombra di questa grande figura, la quale ancora oggi, a distanza di nove secoli dalla sua morte, non cessa di ammaestrare e di alimentare la vita dei suoi Monaci.

6. Infatti la spiritualità camaldolese oggi, in virtù anche della benefica spinta ricevuta dal Concilio Vaticano II, è più che mai fiorente nella Chiesa, costituendo una grande riserva di grazie, di aiuti spirituali per tutti i cristiani, anzi per tutta l’umanità.

Io sono venuto oggi a Fonte Avellana per onorare la testimonianza e il contributo che la vita monastica rende alla Chiesa e al mondo.

I Monaci hanno nella Chiesa un posto e una funzione dalla quale non si può prescindere, essendo la loro specificità provvida ed edificante per tutta la comunità ecclesiale. Essi infatti conservano ed affermano valori di cui il mondo non può fare a meno perché danno alla vita un significato, quando sono realmente vissuti in pienezza.

7. Ricordo con gratitudine il beneficio che personalmente ho ricevuto a contatto con i Monaci camaldolesi a Cracovia, e come i fedeli rimanessero profondamente edificati nel frequentare i loro Eremi, da cui si diffondeva un senso segreto di pace, di letizia e di santità.

Essi infatti da quando sant’Adalberto li chiamò per la prima volta dall’Italia, si sono fatti guide sagge ed esemplari per tanti fedeli della mia Patria.

Carissimi Monaci camaldolesi di questa Abbazia o che in analoghi Monasteri vi dedicate con generosità al Signore: consentitemi che vi rivolga una esortazione ad amare sempre più la vostra vita caratterizzata dalla solitudine, dall’“Effathà” e dalla povertà per arricchire gli altri dei doni celesti. Ben consapevoli che la vostra solitudine non vi separa dalla Chiesa, ma al contrario ne intensifica la comunione, amate sempre più la Chiesa, vostra madre; sostenete con le vostre preghiere la sua ansia apostolica, il suo sforzo per la pace e la sua sofferenza per le drammatiche situazioni in cui vivono oggi tanti fratelli nella fede. Sappiate tradurre in preghiera e in penitenza queste grandi cause della Chiesa.

Continuando ora la celebrazione eucaristica, ringraziamo anzitutto Dio Padre per i mille anni di vita monastica in questa Abbazia di Fonte Avellana. Chiediamogli la forza di perseverare in questa vita con coraggio e coerenza, accogliendo con animo generoso le parole del profeta Isaia, ascoltate nella prima lettura: “Coraggio! Non temete; ecco il vostro Dio . . . Egli viene a salvarvi” (Is 35, 4).

Amen!

    

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