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CELEBRAZIONE DEL SOLENNE GIUBILEO
DELL'ANNO SANTO DELLA REDENZIONE CON I VESCOVI ITALIANI

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Basilica Vaticana - Giovedì, 14 aprile 1983

 

1. “Lo Spirito del Signore è sopra di me . . .” (Lc 4, 18). Le parole del profeta Isaia, che Gesù lesse nella sinagoga di Nazaret annunciandone il compimento nella sua persona, offrono a noi, venerati fratelli, la migliore prospettiva dalla quale cogliere appieno, ancora una volta, il significato e il valore di questo nostro incontro. Noi siamo qui raccolti per confessare con rinnovata fede, a nome dell’intera Chiesa italiana, che Cristo è il Messia annunciato dai profeti, consacrato dall’unzione dello Spirito di Dio, mandato nel mondo dal Padre per instaurare l’era nuova e definitiva della salvezza.

Noi perciò riconosciamo, a nome nostro e dei fedeli affidati alle nostre cure pastorali, che ogni uomo ha bisogno di essere salvato. Lo ammetta o non lo ammetta, ogni essere umano appartiene alla categoria dei poveri, dei ciechi e degli oppressi, di cui parla il testo del profeta. Egli deve infatti fare i conti con la povertà radicale della sua condizione di creatura, stretta fra limiti di ogni sorta; egli deve altresì brancolare fra le dense ombre che ostacolano il cammino sul quale s’affatica la sua intelligenza assetata di verità; egli soprattutto sperimenta i vincoli pesanti d’una fragilità morale, che lo espone ai più umilianti compromessi.

L’uomo è prigioniero del male, lo riconosciamo senza ipocrite tergiversazioni. Al tempo stesso, però, noi testimoniamo davanti al mondo di oggi l’Evento glorioso che ha segnato la svolta decisiva nella storia dell’umanità: Cristo “messo a morte per i nostri peccati, è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (cf. Rm 4, 25). In Cristo Signore, l’uomo è liberato dalle sue molteplici schiavitù ed è ammesso alla gioia della piena riconciliazione con Dio.

2. Questo è il senso profondo di quest’Anno Giubilare: a 1950 anni dal compiersi di quell’Evento che ha ridato al mondo la speranza, era giusto che la Chiesa si ponesse con più intensa adorazione e gratitudine ai piedi del suo Signore, per contemplare il “segno dei chiodi” e la ferita del “costato” (cf. Gv 20, 20. 25. 27) e riconoscere nel Sangue sgorgato da quelle divine scaturigini il “lavacro” che l’ha “purificata”, togliendole ogni “macchia, ruga o alcunché di simile” e rendendola “santa e immacolata” (cf. Ef 5, 26-27).

In fondo ogni Anno Santo porta con sé questa coscienza ravvivata della Redenzione operata da Cristo e il conseguente, acuito desiderio di poter attingere più abbondantemente all’onda purificatrice del Sangue da lui versato sulla Croce. Lungo la storia, a partire dal primo Anno Santo del 1300, la celebrazione di queste ricorrenze sacre, pur con forme abbastanza diverse fra loro, ha avuto una dimensione costante: quella dell’anelito alla grazia del perdono totale in virtù di una più copiosa applicazione dei meriti del Redentore.

Alla radice di tale anelito v’è una fede vigorosa nell’infinita misericordia, manifestata da Dio sul Calvario mediante il sacrificio dell’Unigenito suo Figlio. E v’è altresì la fiducia nel “ministero della riconciliazione” (2 Cor 5, 18), da Cristo affidato alla sua Chiesa per la rigenerazione spirituale dell’umanità. L’essenza più intima di ogni Anno Santo sta proprio in questo movimento spirituale di fede e di speranza, che fa convergere i fedeli con rinnovato slancio verso Cristo redentore che, mediante la sua Chiesa, continua a sciogliere dai vincoli del peccato quanti ne sono trattenuti prigionieri.

3. Questa sia dunque, venerati fratelli, la vostra prima preoccupazione durante i prossimi mesi: annunciare con gioia alle Comunità che vi sono affidate questo “anno di grazia del Signore” (Lc 4, 19). Torni ad echeggiare sulle vostre labbra la parola pronunciata da Cristo nella sinagoga di Nazaret. La nostra generazione ha bisogno di sentirsi ridire, con la forza che viene dallo Spirito, la parola profetica dell’accusa e della promessa, la parola del richiamo e della speranza. Ha bisogno, in particolare, di sentir proclamare con rinnovato vigore che in Cristo “si è adempiuta la Scrittura” (cf. Lc 4, 21), perché lui è il Salvatore preannunciato negli antichi oracoli ed ansiosamente atteso, magari senza saperlo, da ogni cuore umano oppresso dal peccato.

Non abbiate paura di richiamare gli uomini di oggi alle loro responsabilità morali! Tra i tanti mali, che affliggono il mondo contemporaneo, quello più preoccupante è costituito da un pauroso affievolimento del senso del male. Per alcuni la parola “peccato” è diventata un’espressione vuota, dietro la quale non devono vedersi che meccanismi psicologici devianti, da ricondurre alla normalità mediante un opportuno trattamento terapeutico. Per altri il peccato si riduce all’ingiustizia sociale, frutto delle degenerazioni oppressive del “sistema” ed imputabile pertanto a coloro che contribuiscono alla sua conservazione. Per altri, ancora, il peccato è una realtà inevitabile, dovuta alle non vincibili inclinazioni della natura umana e non ascrivibile perciò al soggetto come personale responsabilità. Vi sono, infine, coloro che, pur ammettendo un genuino concetto di peccato, interpretano in modo arbitrario la legge morale e, distaccandosi dalle indicazioni del Magistero della Chiesa, si allineano pedissequamente alla mentalità permissiva del costume corrente.

La considerazione di questi diversi atteggiamenti rivela quanto sia difficile arrivare a un autentico senso dei peccato, se ci si chiude alla luce che viene dalla Parola di Dio. Quando si poggia unicamente sull’uomo e sulle sue limitate e unilaterali vedute, si raggiungono forme di “liberazione” che finiscono per preparare nuove e spesso più gravi condizioni di schiavitù morale. È necessario rimettersi in ascolto della Parola con la quale Dio pone dinanzi a noi “la vita e il bene, la morte e il male” e ci invita a “camminare per le sue vie, ad osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme”, così da poter giungere alla vita, noi e quanti verranno dopo di noi (cf. Dt 30, 15 ss.).

4. Nel richiamare le coscienze dei fedeli ad un più vivo senso del peccato, noi dobbiamo altresì proporre loro l’annuncio della misericordia, che Dio ci ha testimoniato nel dono del proprio Figlio. Come non sottolineare, a questo proposito, l’esempio paradigmatico che ci è offerto dalla catechesi di Pietro nei discorsi al popolo di Gerusalemme e ai membri dello stesso Sinedrio? La pericope del Libro degli Atti, ora ascoltata, ci presenta il Capo del Collegio apostolico nell’atto di richiamare i maggiorenti alle loro responsabilità nella morte di Gesù: “Voi l’avete ucciso appendendolo alla croce” (At 5, 30). L’imputazione del peccato è senza mezzi termini; ma altrettanto chiaro e immediato è l’annuncio del perdono: “Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare ad Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati” (At 5, 31).

In questo Anno Giubilare dobbiamo farci messaggeri particolarmente solleciti dell’impazienza con cui Dio desidera di poter riabbracciare, nel Figlio unigenito, i figli adottivi che si sono allontanati da lui. Ci stimola a ciò l’approssimarsi del Sinodo dei Vescovi, durante il quale la Chiesa si soffermerà a riflettere, appunto, sul tema della Riconciliazione e della Penitenza, nell’intento di esplorare le vie migliori sulle quali farsi incontro all’umanità di oggi, per recare ad essa il dono inestimabile del perdono divino, di cui l’ha fatta ministra il suo Signore risorto (cf. Gv 20, 23).

Ministri della misericordia di Dio, quale sublime missione! E quale servizio improrogabile per un’autentica crescita delle nostre Comunità! Coloro che sanno rientrare in se stessi sentono infatti “la necessità - come ha ben detto il vostro Presidente - di essere perdonati per imparare a perdonare, la necessità di ricuperare la vita divina per essere difensori e promotori della vita in tutte le sue manifestazioni e, infine, la necessità di essere ricondotti nella comunione col Padre per essere costruttori di comunione vera, senza esclusioni di sorta e senza limitazione alcuna”.

5. Costruttori di comunione. Il termine evoca il tema intorno al quale s’è affaticata in questi giorni la vostra assemblea: “Eucaristia, comunione, comunità”. Sono certo che il testo da voi elaborato raccoglie grande dovizia di dottrina e di esperienza, e confido perciò che le varie componenti ecclesiali potranno trovare in esso stimolanti indicazioni per giungere a celebrare e a vivere in modo sempre più degno il Mistero eucaristico, partecipando al quale si costruisce quella comunione nella carità, che è l’anima della comunità ecclesiale.

Come non riandare col pensiero a quell’intima connessione, spinta fino all’identificazione, che i Padri hanno visto tra il corpo eucaristico e il corpo mistico di Cristo? Tornano alla memoria, con tutta la loro carica di suggestioni teologiche, le ardite espressioni con le quali sant’Agostino si rivolgeva ai suoi cristiani: “Si ergo vos estis corpus Christi et membra, mysterium vestrum in mensa dominica positum est: mysterium vestrum accipitis . . . Estote quod videtis et accipite quod estis” (S. Agostino, Sermo 272).

Sulla “mensa dominica” si rinnova l’oblazione sacrificale con cui Cristo ci ha redenti. Partecipandovi, i cristiani di tutti i tempi e di tutti i luoghi sanno di impegnarsi a condurre un’esistenza immolata, grazie alla quale potranno giungere, nell’ultimo compimento, al mattino pasquale della risurrezione.

La celebrazione eucaristica è presieduta dal presbitero “in persona Christi”, in adempimento del compito affidato agli apostoli nell’ultima Cena: “Hoc facite in meam commemorationem” (Lc 22, 19; cf. 1 Cor 11, 26). Come non riconoscere in ciò il riflesso della struttura gerarchica della Chiesa, edificata da Cristo sul fondamento degli apostoli (cf. Ef 2, 20) e organicamente differenziata in ministeri distinti, pur nell’unità di un medesimo Corpo (cf. 1 Cor 12)?

Nel banchetto eucaristico il Pane è spezzato e dato, perché tutti se ne nutrano con rendimento di grazie. Sulla scorta di san Paolo (1 Cor 10, 6-7), la Chiesa ha sempre visto in tale mistero di comunione la sorgente dinamica della sua unità anche esterna, deducendone, come conseguenza, l’impossibilità di perseverare nella condivisione del cibo eucaristico con coloro che avessero infranto la piena compattezza della compagine comunitaria.

E infine, quando Gesù nel Cenacolo annuncia che “non berrà più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrà nuovo nel regno di Dio” (cf. Mc 14, 25), sottolinea la dimensione escatologica del mistero eucaristico, dimensione che la Chiesa sa bene essere componente essenziale della propria vita durante il presente eone, posto tra il “già” delle promesse compiute e il “non ancora” della realtà definitive. La Chiesa perciò celebra l’Eucaristia fra le alterne vicende di questo mondo che passa (cf. 1 Cor 7, 31), come “annuncio della morte del Signore, finché egli venga” (cf. 1 Cor 11, 26), e conforta quanti lungo il cammino, sono “affaticati e oppressi” (Mt 11, 28) consegnando loro il “pegno della gloria futura”.

6. Anche noi, raccolti stasera in questa Basilica che custodisce le spoglie dell’apostolo Pietro, “spezziamo il Pane” in fraterna comunione di spiriti, proiettando lo sguardo del cuore verso la meta ove già sono giunti i tanti nostri fratelli, e preghiamo il Redentore del mondo perché “si ricordi della sua Chiesa, la liberi da ogni male, la renda perfetta nella carità e la raccolga dai quattro venti nel regno che le ha preparato” (cf. Didachè 10,5).

Conosciamo la nostra debolezza, ma confessiamo con le parole della Liturgia: “Sei tu, Signore, la forza dei deboli” (Psalmus responsorius) e non ci abbattiamo per le difficoltà che ostacolano il nostro cammino, ma proclamiamo anzi con invitta costanza: “Gustate e vedete quanto è buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia” (Ivi).

È questa la testimonianza che vi invito a recare ai vostri fedeli, venerati fratelli della diletta Chiesa italiana. Mai come nell’Anno Santo il popolo cristiano può fare l’esperienza di “quanto sia buono il Signore”! Celebrando l’Eucaristia nelle comunità a voi affidate, richiamate tutti al riconoscimento delle proprie colpe, per poter comunicare a ciascuno la gioia del perdono di Dio e invitarlo ad unirsi agli altri fratelli intorno alla “mensa del Signore”, ove nella partecipazione al “pane spezzato” si costruisce la Chiesa di Cristo. Predicate a tutti questo “anno di grazia del Signore”, offrendo ad ogni uomo e donna di buona volontà la possibilità di incontrarsi con Cristo e di scoprire nell’“oggi” della propria esistenza la presenza salvatrice di Colui nel quale si sono adempiute tutte le Scritture. Così sia!

 

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