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VISITA PASTORALE A SALERNO

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Solennità di Pentecoste
Domenica, 26 maggio 1985

 

1. “Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità, perciò muoio in esilio”.

Ricorrevano ieri 900 anni dalla morte del papa San Gregorio VII, avvenuta qui, a Salerno, il 25 maggio 1085. Secondo la testimonianza dei cronisti del tempo, Gregorio VII, sofferente, abbandonato da molti e apparentemente sconfitto, avrebbe pronunciato le parole sopra riportate: senza entrare in merito alla loro autenticità, esse hanno una profonda verità storica, perché compendiano il senso di tutta l’opera del grande papa e corrispondono esattamente a quello che fu l’ideale supremo e costante della sua intera vita (per l’autenticità cf. G. B. Borino, Storicità delle ultime parole di Gregorio VII, in Studi Gregoriani, V [1956] 403-411; P. E. Hübinger, Die letzen Worte Papst Gregors VII, Opladen 1973).

A tali parole - che si leggono ora anche nel nuovo sepolcro del santo papa nella vostra cattedrale - volle accennare il mio predecessore Pio XII nel messaggio radiofonico, indirizzato proprio a voi, fedeli di Salerno, l’11 luglio 1954 in occasione della ricognizione canonica del corpo di San Gregorio VII. Nel suo messaggio, definiva Gregorio VII un “gigante del papato, sicché di lui si può dire con tranquilla verità, essere uno dei più grandi pontefici, non solo del Medioevo, ma di tutte le età” (Pio XII, Nuntius radiophonicus occasione oblata recognitionis corporis S. Gregorii VII missus: AAS 46 [1954] 408).

La grandiosa sintesi, essenzialmente teocentrica e religiosa del santo papa medievale, si riallaccia a una concezione densa e ardente della “iustitia”. Questa virtù non deve solo intendersi con l’“unicuique suum tribuere” del diritto romano, ma risale direttamente dalle sue origini bibliche, al concetto paolino della “dicaiosyne”, la giustificazione: è la realizzazione del progetto eterno e misericordioso di Dio, che si attua nella Chiesa e mediante la Chiesa, a cui si contrappone la “iniquitas”, la negazione e il rifiuto di quel progetto, cioè il peccato.

Tale concezione non giuridica, ma essenzialmente teologica, anima e riempie tutto l’epistolario di San Gregorio VII, nelle preziose testimonianze del suo Registrum, ove il santo papa si apre con tutta spontaneità, svelandoci i motivi ispiratori della sua azione. La giustizia è per lui l’ordine di Dio nel mondo; essa comporta che tutte le cose umane, dalle più piccole alle più grandi, siano ordinate secondo la volontà e la legge di Dio, che l’uomo non sia deformato dal peccato ma plasmato a immagine di Dio.

Compito primario e tremendo del Papa - secondo il pensiero di San Gregorio VII - è di vegliare perché la “iustitia Dei” si realizzi, e la “iniquitas” sia con ogni mezzo ostacolata. In una lettera, indirizzata ai vescovi delle Gallie per il Sinodo del 1083, egli descrive le tribolazioni, le persecuzioni, i pericoli in cui si trova la santa madre Chiesa. Il suo dolore è accresciuto per non aver trovato compassione e aiuto; constata, con una certa tristezza, che non vi è nessuno, o sono pochissimi, i “fautori della giustizia”, disposti a patire e a sopportare fatiche per aiutare la madre Chiesa. Quanto a noi - proclama San Gregorio VII - sia benedetto Iddio, che “finora ha difeso nella nostra mano la giustizia, secondo la testimonianza della nostra coscienza, e, rafforzando la debolezza dell’umana infermità col vigore della sua potenza, non permette che nessuna lusinga di promesse e nessuna paura di violenze ci faccia volgere all’iniquità” (Gregorio VII, Registrum, IX, 11).

E scriveva ancora: “Se vogliamo, con la grazia di Dio, vincere e sconfiggere l’antico nemico e disprezzare le sue astuzie, studiamoci, non solo di sfuggire, per la giustizia, le persecuzioni e le ingiurie che ci arreca, e la stessa morte, ma anche, per amor di Dio e per la difesa della religione cristiana, desiderarla” (cf. Gregorio VII, Epistulae collectae, 23: Bibliotheca Rerum Germanicarum, II [1865] 548 ss.). E aggiunge: “Saremo pronti ad affrontare la morte piuttosto che abbandonare la giustizia” (Gregorio VII, Registrum, IX, 21). Non sorprende pertanto che quando la sua vita si sarà consumata nel sofferto esilio di Salerno, gli intimi lo potranno ricordare così: “Fermissimo, fino alla morte, nella difesa della giustizia” (Bernoldo, Chronicon, ad a. 1085: Mon. Germ. Hist., Script. V. p. 444), e scorgeranno nella sua morte, culmine e sintesi delle sue sofferenze per la purezza e la libertà della Chiesa, quasi i connotati del martirio (cf. Ugo di Flavigny, Chronicon, II: Mon Germ. Hist., Script. VIII, p. 466).

2. Celebriamo il nono centenario della morte di papa Gregorio VII, Ildebrando, nella solennità della Pentecoste.

Il brano del Vangelo secondo San Giovanni, che abbiamo ascoltato, descrive l’apparizione di Gesù risorto agli apostoli riuniti nel cenacolo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi . . . Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 21-22). Sono parole, queste, di straordinario significato, perché proclamano e configurano la missione degli apostoli e del successore di Pietro nel corso della storia, dalla risurrezione di Gesù alla sua seconda venuta nella gloria, come sovrano e definitivo giudice dell’umanità.

Nel corso dei secoli le parole, pronunciate quella sera da Cristo risorto a Pietro e agli apostoli, sono giunte al collegio episcopale unito al successore di Pietro, e sono giunte anche a Ildebrando che, eletto Vescovo di Roma il 22 aprile 1073, col nome di Gregorio VII, fu per dodici anni l’ardente e instancabile protagonista di quella grandiosa opera di purificazione e di liberazione della Chiesa, che da lui prese il nome di “riforma gregoriana”.

3. I gravi e complessi problemi, cui si trova di fronte Gregorio VII nel suo tempo, all’inizio del secondo millennio della diffusione del Vangelo, sono quelli posti dalla crisi della cristianità medievale, di quell’incarnazione storica del messaggio cristiano, che caratterizza l’alto Medioevo e si configura come “Societas christiana”, connotata da una forte compenetrazione di spirituale e di temporale. Il “Regnum” (il Sacro impero), inserito nella “Ecclesia”, segnato di sacralità, esercita un ruolo che non è solo di protezione; la Chiesa, a sua volta, è chiamata a compiti anche temporali e fortemente inserita nelle strutture stesse del “Regnum”. Una particolare esperienza, questa, che offrì non pochi vantaggi, consentendo alla Chiesa contributi per quanto concerne l’evangelizzazione e l’esplicazione di un ruolo di civilizzazione: fondazione dell’Europa su basi cristiane. Ma, a lungo andare, tale esperienza ha avuto anche visibili conseguenze di mondanizzazione, specie al secolo decimo. Tra di esse, le più appariscenti erano la simonia e il decadimento morale del clero. Il moto della riforma, che si sviluppa con vivacità nel secolo XI, punta sulla lotta per la libertà della Chiesa, in particolare nella questione delle nomine riguardanti i benefici ecclesiastici e sulla necessità di un clero adeguatamente e spiritualmente preparato ai suoi ruoli ecclesiali, e ciò mediante, tra l’altro, la riaffermazione e il ristabilimento del celibato.

È merito di San Gregorio VII avere avvertito più lucidamente tali problemi e, soprattutto, averli affrontati con quell’energia e quell’estrema coerenza, che sono le caratteristiche della sua forte personalità.

L’atteggiamento di San Gregorio VII, le sue decisioni e le sue prese di posizione in quella che è denominata la “lotta per le investiture” cozzavano contro situazioni di interessi terreni; perciò le resistenze furono fortissime, non solo da parte dei Regni, e in particolare dell’Impero, ma anche da parte degli stessi ecclesiastici. Sennonché San Gregorio VII agiva così perché amava immensamente la Chiesa, sposa di Cristo, che egli voleva pura, casta, santa, libera; e per la Chiesa egli immensamente soffrì: a un certo momento, alla fine del suo pontificato, fu abbandonato persino da numerosi suoi primi collaboratori. Egli ha pagato di persona il suo servizio di amore alla Chiesa.

Ma il seme, da lui gettato nei solchi irrorati dalle sue lacrime, era destinato a fruttificare e la sua impronta avrebbe a lungo segnato la Chiesa dopo di lui.

4. La Chiesa, fondata da Cristo, è pellegrina in questa terra; composta da uomini, essa si sente realmente e intimamente solidale con tutto il genere umano e con la sua storia. Nel corso dei secoli il rapporto tra la Chiesa e le realtà temporali è stato concepito e vissuto in maniera complessa, varia e diversamente articolata in una dialettica di continua tensione.

Sono passati ben nove secoli dagli eventi, spesso drammatici e dolorosi dell’epoca gregoriana. Anche oggi la Chiesa, sempre attenta ai segni dei tempi, ha approfondito questo compito fondamentale della propria esistenza nel mondo, e lo ha fatto in maniera particolare nel corso del Concilio Vaticano II, presentando nella costituzione pastorale Gaudium et spes il modo con cui essa intende la propria presenza e la propria azione nel mondo contemporaneo. Essa vuole continuare l’opera del Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità (cf. Gv 18, 37), a salvare e a non condannare, a servire e non ad essere servito (Gv 3, 17; Mt 20, 28; Mc 10, 45; cf. Gaudium et spes, 3).

L’autocomprensione della Chiesa è quella del suo fondatore e capo: servire l’uomo alla luce di Dio, rivelatosi in Cristo.

La missione propria che Gesù ha affidato alla sua Chiesa non è di ordine politico, economico e sociale, ma esclusivamente religioso. Tuttavia, da tale missione religiosa scaturisce l’impegno per contribuire a costruire e consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina. La Chiesa pertanto collabora nel promuovere le varie istituzioni dell’uomo, perché niente le sta più a cuore che servire al bene di tutti (cf. Gaudium et spes, 42).

Comunità politica e Chiesa sono indipendenti e autonome nei rispettivi campi. La Chiesa, da parte sua, predicando il messaggio evangelico e illuminando tutti i settori dell’attività umana con la sua dottrina e con la testimonianza dei cristiani, rispetta e promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cittadini. Essa non pone la sua speranza nei privilegi offerti a lei dall’autorità civile. Essa chiede - e lo fa anche oggi, qui a Salerno nel ricordo di San Gregorio VII, per bocca del suo successore - di poter avere sempre e dappertutto e con piena libertà il diritto di predicare la fede, di esercitare la sua missione, di dare il proprio giudizio morale anche su realtà che riguardano l’ordine politico, allorquando lo esigano i diritti fondamentali della persona o la salvezza delle anime (cf. Ivi, 76).

5. Illuminata dallo Spirito Santo, ricevuto nel giorno della Pentecoste, la Chiesa prosegue il suo cammino verso la città futura, in piena fedeltà al suo sposo, Gesù Cristo. È lo Spirito Santo che anima tutto il suo apostolato “da Gerusalemme fino agli estremi confini della terra” (At 1, 8); è lui che assicura la mirabile espansione della parola di Dio; è lui che conforta e anima gli apostoli e i discepoli ad annunciare la salvezza nel nome di Cristo; è lui che insegnerà agli apostoli e ai discepoli e ricorderà tutto quello che ha detto loro Gesù (Gv 14, 26); è lui che sarà sempre con loro (Gv 14, 16). Il tempo della Chiesa è il tempo della missione, della testimonianza, dell’evangelizzazione. Tutti e quattro i Vangeli si concludono con l’invio degli apostoli nel mondo. Quale rilievo, quale forza, quale commozione suscitano queste riflessioni proprio qui, a Salerno, la cui storica cattedrale custodisce i resti mortali dell’apostolo ed evangelista Matteo! La sua misteriosa presenza è come il segno eloquente e vivo della continuità dell’assistenza dello Spirito alla sua Chiesa!

Anche noi, in questo giorno di Pentecoste, “assidui e concordi nella preghiera . . . con Maria, la Madre di Gesù” (At 1, 14), come gli apostoli, invochiamo lo Spirito Santo, qui nella città di Salerno, presso le reliquie di San Matteo; qui a Salerno, che, mediante l’intrepido papa San Gregorio VII, si è legata strettamente alla Sede romana di San Pietro. Per questo sono venuto con particolare gioia a Salerno e saluto con intensità di sentimento questa illustre città e questa benemerita arcidiocesi.

Nel giorno della Pentecoste gli apostoli, in seguito al soffio potente dello Spirito Santo, uscirono dal Cenacolo e si dimostrarono, fino all’effusione del sangue, intrepidi testimoni di Gesù di Nazaret, Messia, Signore, Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto per la nostra salvezza.

Che San Gregorio VII implori per la Chiesa, per tutti i cristiani dei nostri tempi, lo Spirito intrepido di fede! Amen!

 

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