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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI DEL PIEMONTE
IN VISITA "AD LIMINA APOSTOLORUM"

23 gennaio 1982

 

 Cari confratelli nell’Episcopato!

1. “Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum” (Sal 132 [133],1). Con queste parole del salmista intendo esprimervi innanzitutto il mio saluto, che è veramente sentito e cordiale, ma anche il mio compiacimento e la mia gioia profonda nel trovarmi oggi con voi, che siete i qualificati pastori rappresentanti della nobile Chiesa che è in Piemonte.

Sono lieto di questo incontro, soprattutto per due motivi. In primo luogo, perché esso permette a me ed a voi di ribadire manifestamente quegli stretti vincoli di comunione nella fede cristiana e a livello di vita ecclesiale, che sempre devono caratterizzare i rapporti vicendevoli tra la Sede di Pietro e le vostre rispettive sedi diocesane, così da rendere aperta testimonianza di quell’unità, per la quale Gesù Cristo insistentemente pregò il giorno prima di morire sulla croce (cf. Gv 17,11.21.23). In secondo luogo, la vostra odierna presenza evoca alla mia mente ed al mio cuore i momenti, brevi ma intensi, che mi fu dato di vivere nella vostra terra il 16 aprile del 1980. Già allora ebbi la grazia di incontrarvi e di percepire, sia pur soltanto dal Capoluogo torinese, l’illustre tradizione cristiana e la grande sensibilità ecclesiale propria delle regioni Piemonte e Valle d’Aosta.

E oggi in voi, che quasi mi restituite con mio conforto quella visita fugace ma significativa, rivedo la vostra gente buona e laboriosa, le vostre comunità cristiane ferventi e impegnate, il vostro clero zelante nel ministero della parola e della carità fattiva, i religiosi e le religiose che testimoniano il “glorioso Vangelo di Cristo” (2Cor 4,4) sia nella contemplazione sia a vari livelli di generoso apostolato, e poi tutti i battezzati, che in modi diversi ma ugualmente preziosi costituiscono una porzione eletta della santa Chiesa di Dio e “tengono alta la parola di vita” (cf. Fil 2,16).

2. Cari confratelli, voi sapete bene che una visita “d limina” è occasione quanto mai propizia per riflettere responsabilmente sulla situazione delle vostre diocesi; ed è, pertanto, occasione di bilanci e di progetti, forse di preoccupazioni, ma certamente anche di rinnovate speranze e di più generosa dedizione al proprio ministero episcopale. Conosco il ritratto da voi preparato sulla situazione socio-religiosa del Piemonte e, mentre mi compiaccio vivamente per il lavoro da voi svolto, vi assicuro la mia fraterna partecipazione alle vostre gioie ed alle vostre ansie pastorali, che assumo e faccio mie. Questo vale soprattutto nei riguardi dei problemi più urgenti da voi segnalati: l’evangelizzazione del mondo della cultura, del lavoro e dei giovani; la pastorale delle comunicazioni sociali e dei fenomeni del turismo, del pendolarismo, dell’immigrazione; la maturazione del clero nello spirito conciliare; il coinvolgimento dei laici nella vita della Chiesa; le vocazioni presbiterali e religiose. Come si vede, c’è sufficiente materia per il vostro zelo, già così indefesso e intelligente; ma, prima di tutto, ciò è un motivo valido per affidarvi sempre di nuovo al Signore ed alla potenza della sua grazia, poiché “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (Sal 126 [127],1).

3. Tra i problemi che assorbono le vostre energie di Vescovi, mi piace soffermarmi su quello della formazione presbiterale, al quale attribuisco una grande importanza e urgenza, sulla base di due considerazioni. Innanzitutto, dobbiamo riconoscere che in via normale la configurazione delle varie comunità cristiane, siano esse parrocchiali o associative, dipende strettamente dalla figura e dall’opera dei rispettivi pastori, che sono sempre, se non proprio i fondatori, certo le guide responsabili della loro maturazione nella fede e delle loro scelte negli impegni ecclesiali, come lo sono anche, Dio non voglia, delle loro deviazioni. Perciò, formare i presbiteri significa pure formare indirettamente quanti saranno poi affidati alle loro cure pastorali. Inoltre, mi spinge a parlare di questo tema la lunga e gloriosa tradizione dei santi piemontesi che, dopo sant’Eusebio di Vercelli e san Massimo di Torino, fiorirono soprattutto a partire dal secolo scorso, e corrispondono ai nomi universalmente noti di Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Bosco, Giuseppe Cafasso, Leonardo Murialdo, per tacere di Giuseppe Allamano e di Giacomo Alberione. Del resto, queste figure, come dissi durante la mia visita a Torino, “proprio come avviene per la corona delle Alpi che cinge la vostra regione, sono soltanto le vette più alte di tutta una catena di monti robusti e splendenti” (Giovanni Paolo II, Allocutio ad Presbyteros in Cathedrali Taurinensi habita, die 13 apr 1980: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III, 1 [1980] 878).

Ebbene, perché questo filone d’oro del Presbiterio piemontese continui e si rinnovi, occorre coltivare con ogni cura quanti, a tutt’oggi, ne fanno parte o vi sono incamminati. Ed è una duplice esigenza che va attuata: quella di un certo distacco critico dal mondo e quella di un loro profondo inserimento in esso. Così, infatti, si esprime il Concilio Vaticano II: “I presbiteri del Nuovo Testamento, in forza della propria chiamata e della propria ordinazione, sono in un certo modo segregati in seno al Popolo di Dio: ma non per rimanere separati da questo stesso popolo o da qualsiasi uomo, bensì per consacrarsi interamente all’opera per la quale li ha assunti il Signore” (Presbyterorum Ordinis, 3). Queste due componenti, se pur non sono facili da unire, vanno comunque opportunamente equilibrate ed armonizzate, per non cadere in opposti estremismi che non sono propri dei preti in cura d’anime.

4. Proprio qui s’impone il dovere della formazione sacerdotale, la quale, cominciando dagli anni del Seminario e particolarmente della Teologia, si estende in maniera permanente anche nel periodo dell’effettivo svolgimento del ministero pastorale. A questo proposito, voglio esprimervi il mio compiacimento per quanto fate a tutti i livelli di questa formazione, in particolare per la cura delle Vocazioni, per le varie Scuole Teologiche ed anche per il benemerito Istituto di Pastorale con sede a Torino, ma a raggio regionale.

La complessa società in cui viviamo richiede un impegno particolarmente accurato in questo settore, con un necessario aggiornamento sia nella sua conoscenza che nei metodi per accostarla. I campi sociali, a cui fare fronte, sono molti e variegati. Tuttavia, il messaggio evangelico che siamo chiamati a portarvi è unico e semplice, valido per tutti; soltanto, esso va intelligentemente adattato ai vari recettori, secondo la regola d’oro dell’apostolo Paolo: “Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22). In questo senso, il recente Concilio ricorda che “tutti i presbiteri hanno la missione di contribuire a una medesima opera, sia che esercitino il ministero parrocchiale o sopraparrocchiale, sia che si dedichino alla ricerca dottrinale o all’insegnamento, sia che esercitino un mestiere manuale... nel caso che ciò riceva l’approvazione dell’Autorità competente, sia infine che svolgano altre opere di apostolato” (Presbyterorum Ordinis, 8).

Sempre essi “contribuiscono all’aumento della gloria di Dio e nello stesso tempo ad arricchire gli uomini della vita divina” (Ivi, 2). A questo scopo, non si insisterà mai abbastanza sullo sviluppo e sull’acquisizione di particolari doti personali: a partire da quelle umane, fondamentali e indispensabili, sulle quali non bisogna mai sorvolare, a quelle propriamente ascetico-spirituali, a quelle intellettuali, fino a quelle dell’arte pastorale pratica. È un intero bagaglio educativo che bisogna fornire al presbitero e nel quale egli deve allenarsi, come chi si accinge ad un’impresa imprescindibile e delicata, dalla quale dipendono in definitiva l’orientamento radicale e il destino ultimo degli uomini.

5. In questa linea si colloca pure il tema dei rapporti tra i Vescovi ed il loro Presbiterio. Deve rifulgere qui in sommo grado quella comunione, a cui tutti i cristiani sono chiamati. Come ammonisce il Concilio, “le relazioni tra il Vescovo ed i sacerdoti diocesani devono poggiare principalmente sulla base di una carità soprannaturale, affinché l’unità di intenti tra i sacerdoti e il Vescovo renda più fruttuosa la loro azione pastorale” (Christus Dominus, 28). Ed è una comunione che deriva doppiamente dai sacramenti del Battesimo e dell’Ordine: il primo già ci vincola nell’unico corpo di Cristo (cf. 1Cor 12,13), e il secondo ci accomuna nell’identica funzione apostolica di essere “il profumo di Cristo” (2Cor 2,15) e “ambasciatori” per 1ui (2Cor 5,20).

Questa è la prima testimonianza che dobbiamo rendere e che ha una particolare efficacia, secondo le stesse parole di Gesù: “Siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21).

E voglio aggiungere qui una parola sui Consigli Pastorali diocesani. So che essi, a seconda delle varie Chiese locali, funzionano in maniera diversa. Forse non sempre è facile convocarli o addirittura costituirli, e a volte anche recepirne le istanze. Occorre però convincersi della loro importanza, poiché sono i portavoce del laicato più impegnato e sensibile alla vita della Chiesa, e in molti campi, come sappiamo, “senza l’opera dei laici la Chiesa a stento potrebbe essere presente e operante” (Apostolicam Actuositatem, 1); soprattutto, essi costituiscono la parte di gran lunga più ampia del Popolo di Dio, ed è perciò indispensabile cooptarli, con una opportuna formazione, a discutere e a deliberare delle cose che riguardano l’intera Comunità diocesana, sempre nel rispetto della competenza del Consiglio Presbiterale e della responsabilità propria del Vescovo. Importante è indubbiamente altresì il Consiglio Parrocchiale nelle singole comunità, che il vostro zelo non mancherà certamente di raccomandare ai Parroci delle vostre diocesi, sostenendoli e illuminandoli.

La Comunità diocesana, in tal modo, potrà crescere e dare efficace testimonianza cristiana. A questo scopo occorre educare i battezzati e le comunità ad una fede incisiva, ad una fede cioè che non si riduca ad un fatto intimistico, ma sia in grado di esprimere anche un nuovo e concreto umanesimo. È urgente, perciò, ricuperare una coscienza del valore dell’ambiente (scuola, università, fabbrica, ospedale, ecc) come luogo nel quale la vita dell’uomo si forma e si manifesta, ma nel quale anche la fede è chiamata ad incidere costruttivamente.

6. Sono al corrente, in particolare, del fatto che nella vostra regione, così rappresentativa dell’impresa industriale italiana, esiste da tempo una diffusa crisi nel mondo del lavoro. In molte famiglie è messa in forse la base economica della loro sussistenza. In questi frangenti è necessario che la comunità ecclesiale non solo sia sensibilizzata a tali problemi, ma pure concorra, per quanto è possibile, a superarli. La disoccupazione, come ho scritto nell’enciclica Laborem Exercens, “è in ogni caso un male e, quando assume certe dimensioni, può diventare una vera calamità sociale” (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 18). Il lavoro, infatti, è “un fondamentale diritto di tutti gli uomini” (Ivi), e come tale va salvaguardato e promosso.

D’altra parte, là dove il lavoro è sicuro e garantito, occorre conferirgli e mantenergli “quel significato che esso ha agli occhi di Dio, e mediante il quale esso entra nell’opera della salvezza al pari delle sue trame e componenti ordinarie” (Ivi, 24). In Piemonte è esistita una grande tradizione di sacerdoti e di laici, che hanno dato un notevole contributo in campo caritativo e sociale, promovendo numerose iniziative a vantaggio della gente, specie dei più bisognosi. Occorre portare avanti questo impegno, puntando, da una parte, sulla piena occupazione dei lavoratori, e, dall’altra, sulla loro formazione cristiana come parte viva e qualificata della Chiesa. Tra la fede cristiana e il mondo del lavoro non solo non deve esistere alcuno iato, ma si tratta di realtà complementari, che già nel Divino Lavoratore di Nazaret hanno trovato la loro perfetta simbiosi e sempre lo pongono davanti agli occhi di tutti come ideale punto di riferimento.

Per offrire una simile testimonianza è necessaria una efficace presenza cristiana all’interno del movimento operaio, così da svolgervi una funzione di lievito e di promozione, aiutando fra l’altro l’uomo del lavoro ad avere sempre piena coscienza della propria identità, ponendosi le domande fondamentali sul senso del lavoro, sul rapporto lavoro-famiglia, sulla dignità del lavoro e della persona umana, creata a immagine di Dio. A tale scopo, la pastorale in questo settore ha ancora spazio per offrire al mondo del lavoro, ed agli operai in particolare, nuovi contenuti per una ricostruzione della sua identità ed un metodo per una prassi, nella quale tale identità si esprima secondo la propria originalità cristiana e con una reale capacità di condivisione e di risposta ai concreti bisogni di fondo.

7. Cari confratelli, concludendo questo nostro incontro, non posso non rivolgere un particolare pensiero al Cardinale Michele Pellegrino, Arcivescovo già di Torino, da alcuni giorni gravemente malato. Gli auguro di cuore un pronto ristabilimento con l’aiuto del Signore, ed a lui associo tutti gli ammalati delle vostre diocesi, che con tutti i sofferenti hanno un posto speciale nelle mie preghiere.

Vi ringrazio per la visita fattami, che mi ha molto rallegrato, e vi esorto sentitamente ad affrontare sempre con entusiasmo i doveri del ministero episcopale a servizio delle vostre Comunità diocesane. Del resto, sono certo che dal vostro pellegrinaggio alle tombe dei gloriosi apostoli Pietro e Paolo avete tratto decisione e slancio, così da pascere di buon animo il gregge di Dio che vi è affidato (cf. 1Pt 5,2), potendo dire con verità: “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4,13). Da parte mia, mentre vi assicuro che potete contare sempre sulla mia comprensione ed il mio sostegno, vi prometto che sarà immancabile un particolare e costante ricordo al Signore “pastore supremo” (1Pt 5,4), perché cammini con voi, illumini le vostre menti e irrobustisca le vostre volontà, conformandovi sempre più a lui e riempiendovi di ogni conforto.

E sono lieto di avvalorare questi voti con la mia benedizione apostolica, che di gran cuore vi imparto e che amo estendere al vostro clero, ai religiosi e religiose, ed a tutti i fedeli delle vostre dilette diocesi.
 

              



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