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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARTECIPANTI AD UN CONVEGNO SULLA MORALITÀ PUBBLICA

Lunedì, 29 novembre 1982

 

Carissimi fratelli e sorelle.

1. Questa Udienza, da voi desiderata, mi offre l’opportunità di parteciparvi alcune riflessioni sul tema tanto importante ed attuale della pubblica moralità, che i cattolici, a titolo peculiare, hanno il dovere di custodire e di promuovere. L’intendimento, quindi, di coordinare l’attività di Gruppi ed Associazioni di ispirazione cristiana, per rendere sempre più avvertita e consapevole la compagine sociale ed i suoi Dirigenti del grave pericolo che reca con sé la degradazione del pubblico costume, non può che essere lodato ed incoraggiato; certamente esso sarà perseguito con illuminata saggezza, con continuo studio degli oggettivi fattori determinanti, col proposito di oltrepassare la mera denuncia, per costruire un ambiente ricco di verità, di rispetto e di amore nei confronti della spirituale grandezza e nobiltà dell’uomo.

2. Non c’è bisogno che mi soffermi con voi sugli aspetti preoccupanti della situazione della pubblica moralità non solo in Italia bensì in tanti Paesi. Tale situazione può sintetizzarsi in due indirizzi di fondo: l’aggressione continua e sistematica dei principi morali da una parte; e la tattica, dall’altra, spesso strumento di intenti speculativi, di moltiplicare spunti e modelli di corruzione specie tra giovani ed adolescenti.

Le cause di fondo, per cui si è pervenuti a questo stadio di organizzato ed accolto permissivismo, vanno anzitutto ricercate in una crisi del pensiero, in una crisi cioè di ordine metafisico: respinta o obnubilata l’idea di Dio, si è falsata la visione dell’intera realtà e particolarmente dell’uomo. La cultura moderna, percorsa - tutti lo sappiamo - da correnti di pensiero agnostico ed ateo, è approdata ad un “pluralismo ideologico” e quindi ad un “pluralismo etico”, che spesso è pretto relativismo, e che può raggiungere le sponde dell’anarchia morale. Confuso ed alterato il concetto dell’uomo, si confonde e si altera quello della sua vita, del suo agire, della sua moralità.

Se vogliamo essere autentici fautori della personalità e della dignità umana, dobbiamo riconoscere nell’uomo un “essere” che reclama un “dover essere” in forza d’una legge che lo sovrasta: la legge naturale attestata dal senso interiore della coscienza. Questa legge non è alcunché di avventizio, ma è intrinseca alla nostra natura, e ne determina gli imprescindibili ritmi di sviluppo e di perfezionamento; una legge non scritta, ma vissuta: “Non scripta, sed nata lex”; quella legge che san Paolo riconosce anche nei pagani, non illuminati dalla luce della rivelazione divina, allorché afferma che essi sono legge a se stessi, “ipsi sibi sunt lex” (cf. Rm 2, 14).

Certo, il chiaro ed intuitivo riconoscimento della legge morale-naturale, di limiti invalicabili imposti dal rispetto della realtà “uomo”, può essere alterato e sconvolto negli animi. La negazione od anche solo la mancata affermazione di Dio, creatore, ordinatore e giudice dell’uomo, reca come conseguenza il soggettivismo morale, la confusione circa il concetto di “bene” e di “male”; si perdono automaticamente i paradigmi sicuri della moralità.

La stessa nozione di Dio, nella sua genericità, non è ancora sufficiente per determinare in modo assoluto i contenuti della moralità. Al momento delle scelte concrete, le varie concezioni circa la divinità portano logicamente a vari tipi di moralità.

Edotti dalla fede che professiamo, dobbiamo dire che solo Gesù Cristo, il Rivelatore del Padre, è il paradigma sicuro, perché divino, della moralità; egli è la vera luce della coscienza umana: “Io sono la luce del mondo; / chi segue me non camminerà nelle tenebre” (Gv 8, 12). Ad osservare la situazione della moralità pubblica, si direbbe che gli uomini “hanno amato più le tenebre della luce” (Gv 3, 19), che una fitta nebbia avvolga l’umana società, nelle sue varie ed articolate componenti. Vien fatto di pensare alla parabola del buon grano e della zizzania: nel campo della storia il nemico dell’uomo continua a seminare largamente il male.

3. Quale dev’essere, dunque, l’atteggiamento del cattolico nella presente grave situazione? Essa lo richiama, in primo luogo, alla sua specifica responsabilità di essere luce del mondo, sale della terra, lievito della massa: “Vedano le vostre opere buone - ha detto Gesù - e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 16).

Incombe innanzitutto un dovere strettamente personale che consiste nel maturare una fede illuminata, chiara e salda, così che si formino coscienze autenticamente cristiane. Ciò è possibile mediante una cultura religiosa, completa, riflessa, intimamente assimilata, che sia il supporto di un profondo convincimento. Da esso fluiranno una delicata sensibilità morale, il senso della disciplina e della mortificazione, l’esigenza di rettitudine etica in ogni campo dell’agire, ed infine una profonda vita interiore alimentata dai Sacramenti e dalla preghiera, perché la nostra è una morale soprannaturale nell’origine e nei fini.

4. Esiste poi per il cattolico una responsabilità di ordine pubblico e sociale. Si sa bene, infatti, che la caduta della moralità reca con sé la caduta della società, perché di questa scalza gli stessi presupposti, ed anche quel minimo di ordine giuridico che non può prescindere dall’etica. È quindi dovere dei pensosi e degli onesti, arrestare tale crollo dei pilastri fondamentali di una ordinata convivenza civile.

A questo proposito, sia i cattolici, sia tutti gli uomini di buona volontà, devono dimostrare un illuminato coraggio, richiedendo dai responsabili della Cosa Pubblica una maggiore sensibilità, una più energica difesa ed una più esigente valutazione di quel bene comune irrinunciabile che è l’onestà del pubblico costume. La decadenza del costume è decadenza della civiltà, perché esiste una connessione causale tra il cedimento, spesso voluto, alla licenziosità pubblica e la diffusione di fenomeni abnormi, quali la violenza, la delinquenza, la sfiducia nella legalità ed il mancato controllo degli impulsi più irrazionali. Più di qualunque forma di regime, la democrazia esige avvertito senso di responsabilità, autodisciplina, rettitudine e misura in ogni espressione e rapporto sociale.

A voi che fate parte di Gruppi cattolici che si propongono di coordinare con saggezza i loro sforzi, in vista di tutelare quel bene comune che è l’illibatezza della pubblica moralità, rivolgo - a conclusione di queste riflessioni - l’esortazione di san Paolo ai Galati, esortazione valida per i cristiani di tutti i tempi: “Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5, 25), che reca i seguenti frutti: “Amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, temperanza: in tutto ciò la legge non ha nulla a che fare” (Gal 5, 22-23).

Sui vostri compiti e buoni propositi scenda la grazia del Signore, propiziata anche dalla mia benedizione apostolica.

 

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