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  VISITA PASTORALE A RIETI E GRECCIO

INCONTRO CON LA COMUNITÀ ECCLESIALE
E CIVILE DELLA DIOCESI DI RIETI

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II

Salone dei Papi (Vescovado) , Rieti
Domenica, 2 gennaio 1983 

 

Cari fratelli e sorelle della città e diocesi di Rieti!

1. Due parole tanto semplici quanto significative mi salgono spontaneamente alle labbra in questo momento, dopo aver ascoltato le amabili espressioni del vostro “portavoce”, il quale non solo come presidente della Provincia, ma anche e soprattutto come presidente del Comitato per le celebrazioni francescane, ha speciali titoli per essere autorevole interprete dei vostri comuni sentimenti. “Grazie” è la prima parola!

Grazie appunto per l’indirizzo di omaggio, or ora ascoltato, nel quale ho sentito vibrare il cuore della forte e generosa “gens Reatina”. Grazie anche per l’accoglienza ospitale e cordiale, che tutti avete voluto riservarmi in questa mia visita pastorale alla nobile terra della Sabina, che ai valori della vetustà e generosità della più genuina tradizione italica unisce quelli più alti della fede religiosa e della tradizione cristiana.

La seconda parola è “benvenuti”! Sì, io vi dico benvenuti in questo storico Palazzo; benvenuti all’interno di questo salone, che si denomina “salone dei Papi”. Perché? Lo sapete meglio di me: all’antichità della sede vescovile (prova anche questa della fede qui edificata dalla Chiesa di Roma) ha fatto riscontro nel corso dei secoli e, in particolare, nell’età medioevale la presenza, talora prolungata, di non pochi Pontefici romani, i quali per varie ragioni elessero Rieti a temporaneo loro domicilio, stabilendo così con la città e con la cittadinanza un rapporto di preferenziale collegamento per l’ospitalità che qui ricevevano. Basti ricordare, in proposito, i grandi nomi di Innocenzo III, di Onorio III, di Gregorio IX, il quale ultimo, già da Cardinale, aveva qui invitato ed accolto san Francesco infermo.

Da questo punto di vista, si potrebbe dire che l’odierna visita è un ideale ritorno in una sede pontificia dove, non già per titoli di dominazione terrena o per attribuzioni temporalistiche, ma per la ragione dell’universale missione ch’è propria del successore di Pietro (cf. S. Leone Magno, Sermo 82, 1) e per l’antecedente storico di queste accennate vicende, sono ora ben lieto di salutarvi, rivolgendo a ciascuno di voi, qui presente a nome dell’intera Comunità civile ed ecclesiale reatina, il mio sincero ed augurale benvenuto.

2. So bene di trovarmi di fronte (l’ha accennato testé il Signor Presidente) ad una vasta e varia e qualificata rappresentanza della città e diocesi, essendo tante le sue componenti. Tra voi, infatti, ci sono le autorità cittadine e provinciali e con esse i dirigenti delle diverse associazioni culturali e di categoria; ci sono i professionisti e gli impiegati, ci sono i lavoratori in proprio e gli operai delle imprese della non lontana zona industriale.

Si potrebbe dire, dunque, che la vostra è un’assemblea composita; ma così non è; o se lo è, lo è solo considerando le cose esteriormente.

In realtà già il motivo per cui siete qui convenuti costituisce una prova e insieme una spinta ad essere uniti, anzi a fare unità. Qui vi ha condotto non soltanto l’intenzione di rendere omaggio al successore di Pietro; qui vi ha condotto soprattutto la fede di Cristo, che avete tutti in comune e che vi insegna a riconoscere la funzione del Papa nella Chiesa. In verità, è riguardando a questa fede e alle sue implicazioni, è dando ad essa il rilievo che la spetta nell’intero itinerario della sua vita cristiana, a cominciare dal momento del santo Battesimo, che voi tutti in Cristo e con Cristo formate a livello soprannaturale un’effettiva unità. Voi tutti, qui convenuti, siete una porzione eletta della Chiesa di Dio, che è in Rieti. Sicché la mia presenza oggi e qui in mezzo a voi si configura come presenza confermatrice e stimolatrice di questa ecclesiale unità, e tutti insieme - voi come fratelli cristiani e io come fratello tra i fratelli - in realtà celebriamo il mistero della nostra spirituale comunione.

A voi, pertanto, mi piace riferire e applicare le ispirate parole, che usava san Francesco nella sua Lettera ai fedeli (nn. 1-2): “A tutti i cristiani, religiosi, chierici e laici, maschi e femmine, a tutti coloro che abitano nel mondo intero, frate Francesco, loro umile servo, ossequio rispettoso, pace vera dal cielo e sincera carità dal Signore.

Poiché sono servo di tutti, sono tenuto a servire a tutti e ad amministrare a tutti le fragranti parole del mio Signore” (Fonti Francescane, vol. I, p. 151).

Sono espressioni, queste, che ben convengono a voi; ma - vorrei aggiungere più ancora convengono a me che, in forza dell’universale ministero a me confidato, debbo essere veramente “servo di tutti” e - secondo la tradizionale e non certo retorica formula - son chiamato “servo dei servi di Dio”.

3. Se il collegamento che tra noi esiste sul piano ecclesiale si denomina ed è comunione o, meglio, realtà di comunione, esso sul piano delle relazioni ordinarie e, in generale, della vita associata è e deve essere solidarietà. È, questa, una parola che già di per sé dà l’idea della compattezza e della solidità: vedendo in questo salone un’accolta dei rappresentanti dei diversi ambienti e settori della vita cittadina e diocesana, come potrei fare a meno di richiamare e di raccomandare anche un tale valore?

Già a Ginevra, nel giugno scorso, parlando dinanzi alla sede dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIT), ebbi modo di ricordare la natura e l’importanza della solidarietà e volli, in particolare, mettere in luce come essa s’imponga soprattutto nel mondo del lavoro. “Nella problematica del lavoro - io dissi - c’è una caratteristica, che è nello stesso tempo esigenza e programma . . .: la solidarietà” (Giovanni Paolo II, Allocutio Genavae, ad eos qui LXVIII conventui Conferentiae ab omnibus de humano labore interfuere habita, 5, 15 giugno 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/2 [1982] 2255). Se questa è già inscritta a livello naturale nella vita umana per la fondamentale posizione che tutti gli uomini hanno sulla terra, per la “sorte” che hanno in comune, bisogna peraltro tener presente come, per stabilirla e svilupparla, il lavoro abbia una precisa virtualità. “Nelle sue dimensioni profonde - dissi appunto in quella circostanza - la realtà del lavoro è la stessa in ogni punto della terra, in ogni Paese e in ogni Continente . . . La realtà del lavoro è la stessa in una molteplicità di forme: il lavoro manuale e il lavoro intellettuale; il lavoro agricolo e il lavoro dell’industria . . . Senza voler mascherare le differenze specifiche che rimangono e che diversificano, spesso in modo assai radicale, gli uomini e le donne che svolgono queste molteplici mansioni, il lavoro crea l’unione di tutti in un’attività che ha uno stesso significato e una stessa fonte” (Ivi 6: loc. cit., p. 2256).

Ecco, fratelli e sorelle carissimi, anche da questa realtà profondamente umana del lavoro, il quale “per tutti è una necessità, un dovere, un compito” (Ivi), deve risultare più saldo e più forte il vostro spirito di naturale e soprannaturale coesione, in cui siano assommati e insieme esaltati i due beni preziosi della solidarietà e della comunione.

A tener sempre desto un tale spirito vorrei esortarvi, proponendovi come peculiare ricordo del nostro incontro, che voi poi trasmetterete a tutti i membri della Comunità reatina, una scultorea frase del Concilio, ricavata da quel documento che più insiste sulle ragioni e sui modi della presenza cristiana nell’età moderna: “La Chiesa, in forza della sua missione di illuminare tutto il mondo col messaggio evangelico . . ., diventa segno di quella fraternità che consente e consolida il vero dialogo” (Gaudium et Spes, 92).

4. Ma, venuto in visita nei luoghi già santificati da san Francesco, rimirando quella valle amenissima chiamata Valle Santa”, è facile e anche necessario che io a lui concludendo ritorni. Se punto generale di riferimento in questo viaggio è la vostra bella città, Greccio ne è il punto focale per la memoria sempre viva e universalmente nota, che essa conserva, del primo presepio nella storia della spiritualità cristiana. Greccio è - possiamo dire - il “locus inventionis”, è il paese che per la sua semplicità diede al Poverello il suggerimento e lo spunto per questa singolare, tenerissima e umanissima figurazione della nascita, nel tempo e fra gli uomini, del Figlio stesso di Dio. Greccio è quasi una seconda Betlemme e, come questa pur piccola, non era “davvero il più piccolo capoluogo di Giuda, perché da essa doveva uscire il capo per pascere il popolo di Dio, Israele” (cf. Mt 2, 6; Mic 5, 1), così Greccio, custodendo una tale originale espressione di arte e di fede, lungi dall’essere ignorata, ha una sua grandezza che la fa conoscere ed amare in tutto il mondo cristiano.

Nel perdurante e corroborante clima delle festività natalizie - oggi, infatti, la sacra Liturgia ci ricorda che “una stella condusse i Magi fino al presepio” - mi è dolce e caro porgere a ciascuno di voi il saluto augurale e cordiale, che il Santo di Assisi seppe attingere, anzi raccogliere dalla scena arcana, già avvenuta a Betlemme e a Greccio da lui ricostruita: Pace e bene! A voi, ai vostri cari, ai vostri condiocesani, auspice san Francesco, io ora ripeto: Pace e bene, invocando di cuore le benedizioni del Signore.

 

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