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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PELLEGRINI DELL'ARCIDIOCESI DI FERMO

Sabato, 24 marzo 1984

 

Carissimi sacerdoti e fedeli dell’arcidiocesi di Fermo!

1. Dopo le parole così cordiali e affettuose del vostro arcivescovo, che ha illustrato il significato e le finalità dell’odierno pellegrinaggio giubilare, sento il bisogno non soltanto di ringraziarlo, ma di aggiungere subito l’espressione del mio compiacimento e di estendere ampiamente, comprensivamente il mio saluto a tutti voi che siete convenuti in quest’aula.

Saluto e compiacimento io desidero esprimere ai parroci e ai sindaci, ai sacerdoti e ai religiosi, ai soci e alle socie dei diversi sodalizi e movimenti cattolici e, in generale, a voi che, con la vostra presenza presso il sepolcro dell’apostolo Pietro, esercitate una sorta di delegata rappresentanza a nome di tutti i fedeli dell’antica e nobile “Ecclesia Firmana”. A tutti e a ciascuno, infatti, voglio dar atto molto volentieri di quel che è stato fatto in vista del presente viaggio a Roma, che costituisce come il culmine e il punto d’arrivo di un lucido e lungo itinerario spirituale, già iniziato nelle singole parrocchie, e poi esteso alle circoscrizioni foraniali fino a raggiungere il centro-diocesi, con soste privilegiate nell’artistica cattedrale, sacra a Maria santissima assunta in cielo.

Voglia il Signore coronare questo disegno pastorale con l’abbondanza della sua grazia, facendo sviluppare secondo l’intrinseca virtù del Vangelo i germi di bene che sono stati seminati (cf. Mt 13, 8.23; Lc 8, 8.15) e portandoli alla maturità dei frutti della redenzione!

2. Venendo a Loreto nel settembre del 1979, volli render visita al massimo santuario mariano che tanto onora la vostra bella regione, senza peraltro dimenticare le Chiese particolari che lo circondano, tra le quali, anche per una ragione di maggior vicinanza geografica, si annovera e si distingue la vostra. Sapevo bene come quella Fermo, che già in epoca romana era celebrata per la fedeltà all’Urbe (“Firmum firma fides”, si legge nel suo stemma), fin dai primordi dell’era cristiana e poi lungo il corso dei secoli aveva mantenuto con la “sedes beati Petri” un rapporto di costante collegamento o - per usare la parola più esatta - di spirituale comunione, che non sarebbe del tutto improprio definire “privilegiato”. Fermo e la sua vasta diocesi, nel contesto di quell’area che fu dapprima la “Marchia Firmana” e successivamente la “Marchia Anconitana”, si trovarono sempre unite con Roma mediante un vincolo strettissimo che fu insieme causa ed espressione di fedeltà, di devozione e di fede, come, del resto, attivi e intensi furono sempre gli scambi di ordine culturale, sociale, economico tra il Lazio e il Piceno. Dovrei altresì ricordare le figure dei vescovi di Fermo, ascesi al Soglio di Pietro - in proposito, basterà citare un solo nome, ma veramente grande e tutt’altro che dimenticato: quello di Sisto V - e degli altri presuli, molti dei quali furono cardinali, come di altri benemeriti servitori della Chiesa e della Sede Apostolica.

Tutto ciò, però, appartiene al passato e, se di certo a considerarlo offre argomento di soddisfazione e di lode, è pur vero che sarebbe qualcosa di sterile e vuoto, se più non trovasse riscontro nel presente e si rivelasse, rispetto a questo, incoerente e lontano . . . La tradizionale fedeltà di Fermo alla Chiesa romana non può né dev’essere soltanto un dato storico, pur degno di apprezzamento: essa dev’esser, piuttosto, come un’indicazione, uno stimolo, un lievito per confermare un tale rapporto, per stringerlo più saldamente, per esprimerlo in forme anche rinnovate e originali nell’attualità della vita religiosa ed ecclesiale. Voglio dire che anche oggi la vostra arcidiocesi deve sentirsi impegnata a vivere ancor meglio questo innegabile rapporto con la Chiesa e nella Chiesa, facendo tesoro di quegli apporti dottrinali e operativi che il Concilio Vaticano II tanto autorevolmente ha offerto in tema di mutue relazioni tra la Chiesa universale come realtà di comunione e le Chiese particolari con le proprie tradizioni (cf. Lumen Gentium, 13; Christus Dominus, 11).

Non c’è dubbio che una più matura coscienza ecclesiale - la coscienza convinta e anche gioiosa di appartenere alla Chiesa come unico popolo di Dio - servirà a questo scopo, favorendo intese, scambi, aiuti, irrobustendo l’adesione di fede, aprendo il cuore alla più ampia comunione di carità. In tal modo, come già avvenne nel passato, sarà ancora questa viva, identica professione della fede cattolica e romana a trovare puntuale riscontro anche ai nostri giorni, influendo e quasi foggiando un definitivo costume morale, che è - come fu - genuino costume cristiano.

3. C’è un settore che costituisce, a giudizio unanime, come il banco di prova per saggiare la bontà di questa fede e di un tale costume. È il settore delle vocazioni, sul quale vorrei spendere una speciale parola in ragione non solo della sua importanza, ma delle difficoltà, altresì, che si notano ormai in diverse regioni. Fenomeno indubbiamente preoccupante è il constatato calo delle sacre vocazioni al sacerdozio, alla vita religiosa, al servizio missionario. Grazie a Dio, non è dappertutto così; ma in non pochi luoghi è purtroppo così! Perché? Non è questa la sede per fare sottili indagini sociologiche o culturali, e si sa, del resto, che le ragioni sono diverse e, quasi cospirando tra loro, hanno determinato il fenomeno stesso.

Ebbene, se esso esiste nella vostra terra, sta a voi determinare una salutare inversione di tendenza. Preghiera, spirito di fede, buon esempio dei sacerdoti sono e restano i mezzi che, insieme cospirando, potranno bilanciare i fattori negativi e favorire l’auspicata rifioritura. Sta alle famiglie cristiane rispondere al Signore che chiama, considerando una vocazione, che in seno ad esse accenni a fiorire, non già una perdita o una iattura, ma quel che veramente è un dono di Dio. Sta alle singole comunità locali e, in concreto, alle parrocchie preoccuparsi di questo problema, perché non le manchino mai i pastori e siano essi pari - per qualità, come per numero - alle accresciute necessità spirituali del mondo moderno.

Auspico che anche l’odierna circostanza, che vede l’intera diocesi raccolta in una significativa assemblea di fede, valga a promuovere un rinnovato, concorde e forte impegno in questo vitale settore.

4. Nel cammino pastorale di questi anni - come ha accennato monsignor arcivescovo - c’è stato anche il tema dell’Eucaristia, come centro della vita cristiana. Un tema di per sé inesauribile, suscettibile di molteplici considerazioni e approfondimenti, che voi riprenderete tra breve in preparazione al Congresso Eucaristico Diocesano, che sarà celebrato nella primavera del prossimo anno.

Anche intorno a questo tema mi sia consentito, cari fedeli di Fermo, di rivolgervi una parola di speciale esortazione. In effetti, l’appartenenza alla Chiesa, la confessione della fede, il servizio della carità hanno un essenziale e comune punto di convergenza nel Sacramento dell’Altare. Per questo, io vi raccomando vivamente un amore ardente a Gesù Eucaristia, non soltanto come necessaria preparazione al prossimo congresso o come anticipato suo frutto, ma anche come sostegno indispensabile della vostra vita cristiana. Proprio dall’Eucaristia si attinge la virtù per ispirare, orientare, sorreggere singolarmente e comunitariamente questa vita. Non è forse essa - come ripetiamo in ogni messa - il “mistero della fede”? Mistero, cioè sacramento, cioè realtà divina arcanamente operatrice di grazia? E non si può forse, lungo questa stessa linea operativa, raccordare il motivo nobilmente umano della “firma fides”, proprio della vostra gente, con la superiore “fortitudo fidei”, che veniva inculcata ai primi cristiani dall’apostolo Pietro (cf. 1 Pt 5, 8)? Siate sempre fermi e forti nella fede, alimentandola alla fonte della santa Eucaristia.

5. Mi piace concludere questo incontro gradito evocando due ricordi che mi sono stati riferiti. Il primo risale alla visita, che fece tra voi l’amatissimo mio predecessore Paolo VI nel 1962, pochi mesi prima di essere elevato al pontificato. So che, in una magistrale omelia, egli parlò a lungo dell’Eucaristia, mettendo in luce le mirabili relazioni che essa, come corpo reale di Cristo, ha con la Chiesa, ch’è il corpo mistico di Cristo. Molto semplicemente vorrei dirvi che quelle parole, pronunciate a conclusione di un analogo congresso, restano tuttora valide per l’evento ecclesiale che celebrerete - da protagonisti - nel prossimo anno.

L’altra raccomandazione, che desidero farvi, è quella di coltivare una sincera pietà verso la Madre di Gesù, che è insieme - in lui e per lui - Madre nostra dolcissima. So che voi la venerate in non pochi santuari della vostra terra, tra i quali emerge quello cittadino della Madonna del Pianto. E qui cade il secondo ricordo, del pari a me riferito e concernente i miei connazionali, i quali per primi entrarono a Fermo e nella zona circostante, portando dopo le trepidazioni della guerra un raggio di serenità e di pace. In quei giorni - era il giugno del 1944 - la popolazione si strinse amichevolmente intorno a quei giovani soldati, per dir loro la propria gratitudine. Essi, da parte loro, si sentivano inclinati a ricambiare per una sorta di fraternità, che era basata, essenzialmente, sull’identità di fede. Anch’essi, quasi a sciogliere un voto comune, si ritrovarono a fianco dei fermani nel ringraziare la Vergine del Pianto, considerata la celeste salvatrice della città e dell’intera diocesi.

 

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