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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARTECIPANTI AL COLLOQUIO
SULLA DICHIARAZIONE CONCILIARE «NOSTRA AETATE»

Venerdì, 19 aprile 1985

 

Cari amici,

sono felice di salutarvi in Vaticano in occasione del colloquio che insieme avete convocato per commemorare il ventesimo anniversario del decreto conciliare «Nostra Aetate», sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, e particolarmente la sezione concernente le relazioni con l’ebraismo.

È davvero un’occasione importante, non soltanto per la commemorazione in se stessa, ma anche perché riunisce cattolici, altri cristiani ed ebrei, con la collaborazione della facoltà teologica della Pontificia università di San Tommaso d’Aquino, la Lega antidiffamazione B’nai B’rith, il centro Pro unione e il Servizio internazionale di documentazione ebraico-cristiana (Sidic). La commissione della Santa Sede per le relazioni religiose con gli ebrei ha inoltre convenuto di offrirvi assistenza e partecipazione.

In questo incontro di istituzioni tanto importanti per celebrare il decreto «Nostra Aetate», vedo un modo di mettere in pratica una delle raccomandazioni principali della dichiarazione, in cui si dice che, “essendo tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo” (Nostra Aetate, 4). Il vostro colloquio è uno di questi “fraterni dialoghi” e contribuirà certamente a quella “mutua conoscenza e stima” ricordate dal Concilio.

Ebrei e cristiani devono conoscersi meglio reciprocamente. Non soltanto superficialmente come popoli di diverse religioni che semplicemente convivono nel medesimo luogo, ma come membri di tali religioni, che sono così strettamente legate l’una all’altra (cf. Ivi). Ciò implica che i cristiani cerchino di conoscere il più esattamente possibile i credi, le pratiche religiose e la spiritualità propri degli ebrei, e che viceversa, gli ebrei cerchino di conoscere i credo, le pratiche e la spiritualità dei cristiani.

Questo sembra il modo più adatto per dissolvere i pregiudizi. Ma anche per scoprire, da parte dei cristiani, le profonde radici ebraiche della cristianità, e, da parte degli ebrei, per apprezzare meglio il modo particolare con cui la Chiesa, dal tempo degli apostoli, ha letto l’Antico Testamento e ha ricevuto l’eredità ebraica.

Qui ci troviamo in quello che noi cristiani chiamiamo ambito teologico. Vedo nel programma del vostro colloquio che state trattando opportuni argomenti teologici. Penso che ciò sia segno di maturità nelle nostre relazioni e prova che le osservazioni e le raccomandazioni pratiche del decreto Nostra Aetate ispirano realmente i nostri dialoghi. È fonte di speranza ed è incoraggiante vedere tutto ciò attuato in un incontro che commemora il ventesimo anniversario della dichiarazione. Non si possono infatti prendere in considerazione comuni studi teologici se non c’è, da entrambe le parti, grande fiducia reciproca e profondo rispetto l’uno per l’altro: fiducia e rispetto che possono soltanto trarre profitto e svilupparsi da tali studi.

Avete anche affrontato la questione della spiritualità ebraica e cristiana nell’attuale contesto secolarizzato. Sì, ai nostri giorni si può talvolta avere la triste impressione di un’assenza di Dio e della sua volontà dalla vita privata e pubblica di uomini e donne. Quando riflettiamo su tale situazione e sulle sue tragiche conseguenze per l’umanità, privata dalle sue radici in Dio e perciò del suo orientamento morale di fondo, si può soltanto essere grati a Dio perché crediamo in lui, come ebrei o cristiani, ed entrambi possiamo dire, con le parole del Deuteronomio: “Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo” (Dt 6, 4).

Ma la gratitudine diventa impegno ad esprimere e professare pubblicamente la fede davanti al mondo e vivere la nostra vita secondo questa fede, perché “gli uomini vedano le nostre opere buone e rendano gloria al nostro Padre che è nei cieli” (Mt 5, 16).

L’esistenza e la provvidenza del Signore, nostro Creatore e Salvatore, vengono così rese presenti nella testimonianza della nostra condotta quotidiana e della nostra fede. E questa è una delle risposte che coloro che credono in Dio e sono pronti a “santificare il suo nome” (cf. Mt 6, 9) possono e dovrebbero dare all’atmosfera secolarizzata del nostro tempo. Un colloquio commemorativo diventa facilmente, in questo modo, un punto di partenza per un impegno rinnovato e forte, non soltanto in relazioni sempre più profonde tra ebrei e cristiani in molti campi, ma anche in ciò di cui l’uomo ha più bisogno nel mondo d’oggi: il senso di Dio, Padre amorevole, e della sua volontà salvifica.

È in questo contesto che vedo il riferimento nel vostro programma alla catastrofe che ha tanto crudelmente decimato il popolo ebraico, prima e durante la guerra, specialmente nei campi della morte. So che la data tradizionale per tale commemorazione cade tra poco. È precisamente la mancanza di fede in Dio e, come conseguenza, la mancanza di amore e di rispetto per il nostro prossimo, uomo e donna, che può facilmente produrre tali catastrofi. Preghiamo insieme perché questo non accada mai più e perché tutto ciò che facciamo per conoscerci meglio, per collaborare insieme e per rendere testimonianza all’unico Dio e alla sua volontà, quale è espressa nel decalogo, contribuisca a rendere le persone ancora più consce dell’abisso in cui l’umanità può cadere quando non riconosciamo gli altri come nostri fratelli e sorelle, figli e figlie dello stesso Padre celeste.

Le relazioni ebraico-cristiane non sono mai un esercizio accademico. Sono, al contrario, parte dell’intima struttura del nostro impegno religioso e delle nostre rispettive vocazioni di cristiani e di ebrei. Per i cristiani queste relazioni hanno speciali dimensioni teologiche e morali perché la Chiesa è convinta, come si dice nel documento che stiamo commemorando, di avere “ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’antica alleanza, e che si nutre della radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvaggio che sono i gentili (cf. Rm 11, 17-24)” (Nostra Aetate, 4).

Commemorare l’anniversario del decreto Nostra Aetate significa essere sempre più consapevoli di tutte queste dimensioni e tradurle ovunque in pratica quotidiana. Auspico che questo avvenga e prego perché il lavoro delle vostre organizzazioni e istituzioni nel campo delle relazioni ebraico-cristiane sia sempre più benedetto dal Signore, il cui nome dev’essere sempre lodato: “Grande è il Signore e degno di ogni lode” (Sal 145, 3).

 

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