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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AL CORPO DIPLOMATICO
ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE

Sabato, 12 gennaio 1985

 

Eccellenze, signore e signori.

1. Le nobili parole appena pronunciate da sua eccellenza il signor Joseph Amichia, interpretando i sentimenti e i voti di tutto il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, raccolgono, ne sono sicuro, l’adesione di tutti i partecipanti. Chi non condividerebbe queste aspirazioni alla pace di fronte ai conflitti in corso, alle minacce, alla carestia, alla discriminazione razziale, all’indebitamento, alla disoccupazione? Ringrazio in modo particolare il vostro decano per la stima generosa e fiduciosa con la quale ha passato in rassegna l’azione della Santa Sede e ha ricordato numerosi aspetti della mia missione spirituale. Dio faccia sì che questi voti così ben formulati si realizzino al meglio nel 1985, nonostante i nostri limiti umani, per la comunità delle nazioni e per la Chiesa!

Tra qualche istante sarò lieto di salutare ciascuno di voi. Alcuni partecipano per la prima volta a questo incontro, avendo presentato di recente le loro Lettere credenziali e, in alcuni casi, come primi ambasciatori dei loro Paesi presso la Santa Sede. Molti altri sono attesi, poiché i loro governi hanno allacciato dall’anno scorso relazioni diplomatiche con la Santa Sede. A nome di tutti, indirizzo ai nuovi venuti il benvenuto in questa assemblea di illustri diplomatici, che vorrebbe essere anche una famiglia. La grande varietà dei vostri volti, delle lingue, dei Paesi, delle culture che rappresentate, non potrebbe simboleggiare, in un clima di rispetto, di stima reciproca e di pace, l’avvicinamento delle nazioni in cerca di comprensione reciproca e di fratellanza?

I miei auguri cordiali vanno a ciascuno di voi, capi di missione e collaboratori, alle vostre famiglie, ai popoli e alle istituzioni che voi servite, cioè ai governi, e ancor di più alle nazioni la cui fisionomia e il cui vigore permangono al di là delle vicissitudini della storia e della sorte degli uomini politici.

Attraverso di voi, potrei inoltre salutare i diversi continenti. Una parte dell’Europa è sempre molto presente attorno alla Santa Sede. Ma l’Africa non lo è di meno, come attesta l’intervento del vostro decano, ambasciatore della Costa d’Avorio. Attraverso di voi, la Santa Sede fa sue le speranze e le preoccupazioni dei diversi Paesi africani, di cui si conosce la giovinezza e la vitalità, le aspirazioni allo sviluppo, i bisogni di articolare l’autorità, la libertà e la pace, gli sforzi per promuovere l’unità del continente, per assicurare la dignità umana e particolarmente per superare le inammissibili discriminazioni razziali. Formulo i migliori auguri perché essi si aprano il loro cammino, ancora piuttosto nuovo, in modo desiderabile e giusto per tutti.

L’America Latina, nella quale sono concentrate tante popolazioni a grande maggioranza cattoliche, riveste ai nostri occhi un’importanza considerevole. L’ho sottolineato recandomi a Santo Domingo, per preparare il quinto centenario dell’evangelizzazione. Presto visiterò quattro di questi Paesi. Le loro preoccupazioni di lottare contro la povertà, di ripartire meglio la ricchezza, di assicurare formazione e lavoro ai giovani, tanto numerosi, di garantire i diritti umani, di assicurare la pace all’interno e all’esterno, sono questioni che interessano tutta la comunità delle nazioni, e la Santa Sede esprime a questi Paesi i suoi cordiali incoraggiamenti.

Anche l’Asia è ben rappresentata tra di noi, dal vicino Oriente all’estremo Oriente, e, oltre alle missioni permanenti, non possiamo dimenticare le altre nazioni, in particolare la grande nazione cinese, di cui la Chiesa segue sempre con rispetto e interesse le aspirazioni e il dinamismo. Le mie visite in Corea e in Thailandia, hanno manifestato la sollecitudine della Santa Sede per i popoli asiatici e le loro illustri culture, del resto rappresentate nella Chiesa cattolica: l’esperienza personale che ne ho fatto rimane incisa nella memoria del cuore.

Non c’è bisogno che mi dilunghi ora sull’America del Nord. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, ciascuno conosce le possibilità di questo grande Paese, la sua influenza mondiale, l’attaccamento del suo popolo alla libertà. E conservo un ricordo riconoscente di ciò che, recentemente, ho osservato in Canada.

Infine, auspico che le numerose isole dell’Oceania percepiscano, malgrado la loro lontananza geografica, l’interesse della Santa Sede che è stata manifestato, tra l’altro, dalla visita papale in Papuasia Nuova Guinea e alle numerose Isole Salomone e, attraverso un messaggio, a Tahiti.

Questo incontro di auguri al Papa è semplice, perché bandisce ogni inutile artificio È tuttavia solenne, perché siamo invitati, voi e io, a gettare sull’anno che comincia, su tutta la scena mondiale, uno sguardo lucido, il più ampio e profondo possibile, rilevando le minacce e i segni di speranza, davanti a Dio che sonda l’intimo dei cuori e che, nella notte di Natale, chiama tutti gli uomini di buona volontà alla pace.

2. La lucidità può portare a vedere innanzitutto le cose che lasciano a desiderare, e che i mass media rivelano impietosamente, ogni giorno. Io stesso, il giorno di Natale, quando la nostra attenzione si concentrava sulla povera mangiatoia del bambino-Dio a Betlemme, ho ricordato numerosi tipi di sofferenze, di mali, di “povertà” in tutti i sensi della parola (come quella dei rifugiati che ho incontrato in Thailandia), di violenze, di pericoli, perché tutte le vittime conoscano la nostra solidarietà e l’opzione preferenziale della Chiesa per i poveri, ma anche perché la speranza rinasca nei loro cuori di fronte a colui che è venuto ad arricchirci della sua divinità e a dissipare le tenebre dell’errore, dell’egoismo e dell’odio.

Bisogna inoltre, e forse innanzitutto, considerare le innegabili realizzazioni positive, per meglio valutare ciò che è possibile fare, fortificare la speranza e il desiderio di intraprendere gesti di pace. A titolo d’esempio significativo, voi comprenderete che io citi la firma del Trattato di pace e di amicizia tra Argentina e Cile, che conclude il contenzioso sulla zona australe. Ecco una questione che, sei anni fa, avrebbe potuto degenerare in guerra fratricida, consumare le energie di questi popoli dinamici in imprese distruttive. Ma le due parti hanno voluto continuare sulla via del dialogo, che era in difficoltà, chiedendo la mediazione della Santa Sede.

Ciò è stato laborioso poiché si trattava di una questione assai complessa. Occorreva una volontà tenace da una parte e dall’altra. Ciascuno dei due Paesi ne è uscito con onore e senza danni per i suoi interessi nazionali, semplicemente con ragionevoli concessioni reciproche. Questa procedura apre nel medesimo tempo delle prospettive promettenti per i diversi settori di fruttuosa collaborazione, di cui parleremo. L’esempio mostra che la via del negoziato, saggio e paziente, direttamente tra le parti o con l’ausilio di un intermediario, può condurre alla soluzione di controversie apparentemente insolubili. La Santa Sede continua a rendere grazie, per questo avvenimento, alla Provvidenza che le ha dato questa occasione di offrire i suoi servizi, di essere il suo modesto strumento, e che ha disposto le persone e le circostanze in modo favorevole.

Si potrebbe inoltre ricordare, come segni positivi, i progressi realizzati in senso democratico in numerosi Paesi che conoscevano un certo totalitarismo. Non che la nuova situazione semplifichi i problemi dell’economia o degli equilibri sociali; ma ai nostri occhi essa costituisce, mentre assicura una necessaria autorità pubblica sufficientemente forte e l’unità della nazione, una via più normale, più sicura, più rispettosa delle libertà, in una parola, più giusta; essa mette fine a ingiustizie e apre il campo alla partecipazione responsabile di tutti (cf. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 17, § 6-7).

Voglio poi citare, come un altro segno positivo, l’apertura in questi giorni a Ginevra, dei colloqui tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica, sulla limitazione degli armamenti nucleari. Era infatti necessario che il dialogo, da lungo tempo congelato, riprendesse su una questione così vitale. Dopo questo primo incontro, sembra che si possa provare un prudente ottimismo.

Voglia Dio che gli autentici negoziati, che saranno senza dubbio laboriosi, confermino le previsioni favorevoli! Tutto il mondo ha gli occhi fissi sui rapporti tra queste due grandi potenze, a causa del loro potenziale economico e militare senza pari, e dunque delle loro enormi responsabilità, in campo nucleare, che tocca le sorti dell’umanità, ma anche in ben altri campi politici o morali.

Questa situazione di bipolarismo non può tuttavia condizionare la libera espressione, il margine di manovra e le possibilità di iniziative degli altri Paesi; questa responsabilità di due potenze – come quella dei membri permanenti nel Consiglio di sicurezza in seno all’organizzazione delle Nazioni Unite – trova la sua giustificazione soltanto nella misura in cui essa permette ad altre nazioni di assumere il loro posto, di prendere le loro iniziative, di esercitare la loro influenza nelle giuste condizioni e per il bene della comunità mondiale.

3. Perché i rapporti internazionali favoriscano e affermino una giusta pace, sono necessarie nello stesso tempo reciprocità, solidarietà, e collaborazione effettiva, che è il frutto delle altre due. Queste tre parole chiave saranno quest’anno il leitmotiv dei nostri discorsi.

Questi orientamenti potrebbero poi essere ravvicinati al grande progetto della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, che si è conclusa a Helsinki nel 1975. Essa ha aperto una speranza per ciò che riguarda, tra l’altro, lo sviluppo delle mutue relazioni, in considerazione delle realtà di ordine tecnico, culturale, sociale e umanitario di ciascuno, il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Quest’anno segnerà, nel mese di agosto, il decimo anniversario della firma dell’Atto finale. Le difficoltà della cooperazione non mancano e i frutti si fanno spesso attendere, da una sessione all’altra; sarà necessario ancora un lungo cammino, un cammino paziente, molta buona volontà e lealtà. Ma chi negherebbe che un orientamento è ormai tracciato per aiutare tutti i Paesi interessati, quelli d’Europa e d’oltre Atlantico, a realizzare un reale progresso negli scambi, a beneficio della qualità della vita dei loro popoli? La Santa Sede, che è membro della Conferenza, continua a sperare.

Per quanto riguarda la reciprocità nei rapporti, essa non si oppone alla sovranità, ma è una condizione del suo degno esercizio. Ciascuno dei Paesi qui rappresentati è sovrano agli occhi della comunità dei popoli, uguale nella dignità, fiero della sua indipendenza e alla ricerca dei suoi legittimi interessi. Voi stessi, signore e signori, membri del Corpo diplomatico, siete designati per servire il bene dei vostri rispettivi Paesi. L’anno scorso, nella medesima circostanza, vi avevo intrattenuto sui benefici, le condizioni e le esigenze di una tale sovranità.

Ma, allorché un Paese rivendica i suoi diritti, il diritto di essere trattato – eventualmente aiutato – con giustizia e onore, tenendo conto dei suoi interessi, non dovrebbe ignorare i diritti simili degli altri. Il vero dialogo politico - che è stato già oggetto del mio messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1983 e dell’allocuzione ai diplomatici dello stesso anno - esige apertura, accoglienza e reciprocità: accetta la differenza e la specificità dell’altro, per un’onesta conciliazione; è nello stesso tempo alla ricerca di ciò che è e resta comune agli uomini, anche nelle tentazioni, nelle opposizioni e nei conflitti, perché ne va di ciò che è vero, buono e giusto per ogni uomo, ogni gruppo e società. Non c’è dialogo di pace senza questa accettazione della giustizia che è al di sopra delle parti, che le giudica tutte, e che implica, nella pratica, la reciprocità. Come rivendicare sul piano internazionale o nei rapporti bilaterali ciò che si rifiuta di concedere agli altri, conformemente ai loro diritti? È una questione di lealtà, di giustizia; potrebbe ostacolarla soltanto, da una parte, la paura della violenza ingiusta degli altri, dall’altra, la paura della verità, l’egoismo cieco di un popolo o di una frazione d’un popolo, la volontà di potenza dei suoi dirigenti e, ancora più, il loro irrigidimento ideologico.

I cristiani trovano nel Vangelo una frase di Cristo stesso che apporta luce, forza e pone delle esigenze su questo cammino della reciprocità: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7, 12). Questa frase esplicita il comandamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Vi saranno numerose applicazioni nella vita internazionale.

– Come invocare il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, dei quali non si è mai tanto parlato, se non li si rispetta all’interno del proprio Paese?

– Come parlare del diritto all’indipendenza, come dell’abc dei principi che regolano i rapporti internazionali, se si interviene dall’esterno per suscitare e appoggiare forze sovversive in un altro Paese, sia in maniera indiretta, sia anche in maniera diretta, con la forza, e questo contro il desiderio della maggioranza della popolazione? E lo si potrebbe dire anche quando un paese ha praticamente imposto a un altro un regime e il suo apparato governativo.

– Come, all’interno di un Paese, invocare i diritti di una parte della popolazione escludendo i diritti degli altri a vivere pacificamente sulla stessa terra?

– O come imporre a tutto un Paese una legge particolare che soffoca i diritti civili e religiosi di una minoranza?

– Uno sguardo sull’attività delle organizzazioni internazionali suscita anch’esso qualche perplessità. Queste organizzazioni hanno valore nella misura in cui accolgono la cooperazione di tutti i membri e perseguono il bene comune di tutti, cercando di comunicare loro i frutti derivanti da un’azione concertata. È auspicabile che esse beneficino di una partecipazione il più possibile universale.

– Per quanto riguarda la libertà religiosa si deve attuare una reciprocità, cioè una parità di trattamento. Certamente, coloro che credono nel vero Dio, per rispetto alla verità alla quale essi aderiscono con tutta la loro fede, non possono ammettere l’equivalenza di tutte le fedi religiose, e ancor meno cadere nell’indifferenza religiosa; essi desiderano inoltre, normalmente, che tutti accedano alla verità che essi conoscono, e si impegnino in una testimonianza che rispetti la libertà dell’adesione, perché ne va della dignità dell’uomo di aprirsi alla fede religiosa con un libero omaggio della ragione e del cuore, con la grazia, secondo ciò che scopre e prescrive la coscienza ben formata. Essi possono dunque nello stesso tempo – e lo devono – rispettare la dignità delle altre persone, che non dovrebbero essere ostacolate nell’agire secondo la propria coscienza, soprattutto in materia religiosa. Il Concilio Vaticano II ha fatto questa distinzione nella dichiarazione Dignitatis humanae (cf. Dignitatis humanae, 2), risolvendo così un problema che aveva potuto lasciar a desiderare nel passato delle comunità cristiane. Così - voi mi permetterete di esprimermi qui in perfetta confidenza - si comprende la sorpresa e il sentimento di frustrazione dei cristiani che accolgono, per esempio in Europa, dei credenti di altre religioni dando loro la possibilità di esercitare il loro culto, e che si vedono interdire l’esercizio del culto cristiano nei Paesi in cui questi credenti maggioritari hanno fatto della loro fede la religione di Stato.

– D’altra parte, gravi difficoltà sorgono là dove lo Stato adotta un’ideologia atea. Vi è, certamente, una grande diversità di situazioni, a seconda che lo Stato si trovi o meno di fronte a forti e vigorose comunità confessionali. Ma, in generale, esiste una contraddizione tra le dichiarazioni ufficiali sulla libertà religiosa, concessa, per modo di dire, alle singole persone e la propaganda antireligiosa, alla quale si aggiungono, qua e là, misure di coercizione che impediscono il libero esercizio della religione, la libera scelta dei ministri di culto, il libero accesso ai seminari, la possibilità di catechesi dei giovani, senza contare le discriminazioni dei diritti civili dei credenti, come se l’adesione alla fede mettesse in pericolo il bene comune!

Inoltre, esiste almeno una situazione in Europa, in cui l’ideologia atea fa talmente causa comune con lo Stato che l’ateismo è imposto alle coscienze e ogni gesto religioso, non importa di quale confessione, è assolutamente vietato e severamente punito.

In queste diverse situazioni, ciò che è in causa è lo spirito di tolleranza ben inteso, che non è indifferenza religiosa ma rispetto delle coscienze, cioè di una delle libertà più fondamentali, e rispetto della distinzione degli ambiti politico e religioso, che Cristo ha così ben formulato: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22, 21).

4. Al di là della reciprocità dei diritti e della stretta giustizia nell’uguaglianza del trattamento, bisogna arrivare a una solidarietà comune di fronte alle grandi poste in gioco dell’umanità. Tutti i popoli si trovano in una situazione di mutua interdipendenza, sul piano economico, politico, culturale. Ciascun Paese ha o avrà bisogno degli altri. Dio ha affidato la terra a tutta l’umanità, facendo della solidarietà una legge che vale per il bene come per il male. Certamente, ci sono state possibilità diverse per quanto concerne la ricchezza delle terre o del sottosuolo, il favore del clima, i talenti legati a questa o quella civiltà, e anche la fatica compiuta dagli uomini, secondo il loro più o meno sviluppato spirito di iniziativa. Il progresso economico e sociale può essere ritardato dalle difficoltà sperimentate soprattutto dalle nazioni giovani a padroneggiare i nuovi processi di produzione e di distribuzione talvolta anche per la negligenza, anzi la corruzione, degli uomini, difficoltà alle quali bisognerà coraggiosamente porre rimedio. Ma, in ogni modo, queste situazioni di disuguaglianza chiamano quegli esseri ragionevoli che sono gli uomini a superare insieme queste difficoltà e, davanti alla sorte crudele che tocca larga parte dell’umanità, non ci sono validi pretesti per rifiutare il contributo alla loro sopravvivenza e al loro sviluppo. La solidarietà reciproca è la sola risposta pienamente umana, ed è anche, a lungo termine, l’interesse rettamente inteso di tutti. È una sola e medesima l’avventura che noi tutti corriamo. A Edmonton, in Canada, ho ancora una volta difeso la causa dei Paesi del Sud, e sono lieto di vedere capi di Stato sensibilizzare l’opinione del loro popolo a questo problema capitale.

L’imperioso bisogno di progredire in questo spirito di solidarietà è così evidente che mi limiterò a due esempi.

Molti Paesi in via di sviluppo hanno contratto debiti enormi che si aggravano. So che il problema è complesso e che implica eventualmente la questione della prudenza dei prestiti e la loro reale utilizzazione per degli investimenti nel Paese. Ma la situazione è diventata inestricabile per molti Paesi debitori: senza un nuovo sistema di solidarietà, come li potranno rimborsare? Come potranno uscire da questo impasse? Ne va dell’interesse di tutti, ivi compresi i Paesi ricchi che rischiano di trovarsi isolati. Ne va del senso umano della solidarietà. Per i cristiani un tale rinnovamento dei rapporti potrà difficilmente attuarsi senza l’amore generoso e disinteressato di cui Cristo stesso è il modello e la sorgente.

L’altro esempio è quello che, ogni giorno, l’attualità propone ai nostri occhi atterriti, se almeno non distogliamo lo sguardo e il cuore, come ha ben detto il vostro decano: la carestia dei Paesi della siccità, specialmente in Africa. Ben si sa che i Paesi interessati attualmente non possono – da soli – emergere da questa drammatica situazione, impedire la morte di milioni di persone, né arrestare in futuro l’espansione del deserto. Ma la situazione può essere ripresa in mano: non soltanto bisogna continuare a portare soccorsi d’emergenza, prelevati tra l’altro dal surplus che taluni sono tentati di distruggere per equilibrare un’economia troppo circoscritta, ma bisogna mettere in comune le tecniche che Dio ci ha permesso di scoprire. Ho parlato, all’inizio, di segni positivi. Tengo a sottolineare questo: il fatto che, in questi ultimi tempi, organizzazioni della comunità internazionale, Paesi e istituzioni, abbiamo accettato di affrontare questa sfida, è molto incoraggiante.

5. Secondo i principi di reciprocità e di solidarietà esposti, sarà possibile effettuare una collaborazione più efficace dei membri della comunità mondiale in altri ambiti, precisamente dove la violenza continua le sue devastazioni e dove gravi minacce pesano sull’umanità.

Si tratta di scoraggiare soluzioni di violenza e contribuire a superare la paura, il clima di diffidenza che paralizza alcuni Paesi, provoca il loro ripiegamento su di sé, ma può anche trascinarli nella menzogna, nell’irrigidimento, nella provocazione, nella violenza. Certamente, si invoca ancora la giustizia o l’autodifesa, ma un altro clima, una nuova filosofia, come ho detto il 1° gennaio di quest’anno, permetterà di trovare altre soluzioni alla giustizia e alla sicurezza. Ricordo ora quattro ambiti. Qui potrebbero cooperare, non soltanto le parti direttamente interessate da questa controversia o da quel conflitto, ma un numero crescente di Paesi e in particolar modo le organizzazioni internazionali.

a) Senza che si possa parlare di ingerenza negli affari interni degli altri, non sarebbe loro possibile usare la loro influenza per scoraggiare i conflitti in corso, per aiutare a riprendere i cammini del dialogo, cercare soluzioni negoziate suscettibili di essere accettate da tutti, salvo forse da coloro che un’ideologia cieca o un interesse machiavellico trattengono nei loro disegni? Ci si potrebbe almeno aspettare dagli altri Paesi che si astengano dal sostenere le parti in conflitto nel perseguimento di operazioni che provocano tanti morti e rovine. Qui non si può fare a meno di pensare al Libano. Quando potrà finalmente trovare la pace desiderata e la capacità di rafforzare le proprie istituzioni nella leale collaborazione tra le diverse componenti della nazione? Come porre fine, prudentemente, agli interventi esterni e, quando essi termineranno, come garantire la pace, evitare le vendette e i massacri che tutto il mondo ancora ricorda? Si potrebbe ragionare in modo simile per le guerre e le violenze senza pietà che si compiono tra Iran e Irak – questo conflitto viene alimentato da una corrente continua di anni fornite dalle parti più disparate – e poi in Afghanistan, in Cambogia, in numerosi Paesi dell’America centrale. Se la Santa Sede ne parla, anche quando i suoi correligionari non sono in causa, è perché non può risolversi a vedere rovinare e massacrare dagli innocenti, che già hanno pagato cara l’assurdità della guerra. La Chiesa sa bene che la rinuncia alla violenza è difficile, ma bisogna avere il coraggio di cominciare. Da parte sua, per esempio in America centrale, essa è pronta a offrirsi come il luogo o l’istanza che permettono alle parti di incontrarsi, di comprendersi, di cominciare un sincero dialogo di pace.

b) Bisogna inoltre scoraggiare la violenza e la paura sul piano del disarmo; far abbassare il più possibile il livello degli armamenti, incoraggiare una nuova filosofia delle relazioni internazionali, rinunciare a interessi egoistici e ideologici che alimentano le tensioni, gli odi, le sovversioni e consacrare le energie e le risorse rese disponibili dal disarmo per le grandi cause del nostro tempo: la lotta contro la fame, lo sviluppo, la promozione umana (cf. Giovanni Paolo II, Declaratio post orationem Angelus, 1° gennaio 1985).

c) È importante lottare insieme contro il terrorismo internazionale, non incoraggiando in alcun modo i terroristi e, su un altro piano, il traffico della droga, diventato un autentico flagello. In questi ambiti, a parte il dramma creato ancora recentemente da alcuni pirati dell’aria, sembra ci siano stati dei progressi che risultano soprattutto da una maggiore solidarietà internazionale.

d) Ma bisognerebbe scoraggiare la violenza sotto tutti gli aspetti, compresa quella che si accanisce contro i prigionieri politici, compiuta in segreto e senza alcun freno, come se si trattasse di una questione lasciata all’arbitrio dei poteri, anche col pretesto della sicurezza, nei campi di concentramento, nelle prigioni, negli altri luoghi di internamento. Vi sono casi in cui si accanisce contro di loro in modo ignobile, volendo arrivare fino alla distruzione completa della loro personalità. E la vergogna della nostra umanità. Sarebbe necessaria perlomeno una denuncia di questi fatti, una condanna molto netta da parte dell’opinione internazionale, e un diritto di visita da parte delle istanze umanitarie riconosciute legittimamente a questo titolo. Ciò vale per la violazione di tutti i diritti umani, come per la libertà religiosa.

6. Per concludere, desidero consegnarvi ancora tre riflessioni: sul contributo dei giovani, sull’educazione ai valori morali, sulla profondità spirituale della riconciliazione.

Sì, è bene, è necessario puntare sui giovani. La maggior parte dei Paesi rappresentati nel Corpo diplomatico ha una proporzione enorme di giovani. Nell’interesse della pace è necessario che essi possano fare delle scelte etiche valide. L’organizzazione delle Nazioni Unite ci ha invitati a entrare nell’Anno internazionale dei giovani, e io ho dedicato loro il messaggio della Giornata della pace: “La pace e i giovani camminano insieme”. I giovani non hanno l’esperienza che voi avete: senza dubbio essi non vedono tutte le difficoltà della vita politica, nazionale e internazionale. Anch’essi hanno le loro debolezze, le loro tentazioni, la loro violenza, e talvolta fuggono le responsabilità concrete. Non si tratta di fare con loro della demagogia. Ma sappiamo tener conto delle loro legittime aspirazioni, che spesso toccano generosamente l’essenziale? In ogni modo, essi saranno domani gli artefici della pace. Come vengono preparati a questo ruolo? Il nostro modo di trattare la giustizia e la pace è in grado di soddisfarli? Come dar loro un esempio, una speranza, un inserimento professionale che li faccia uscire dal trauma della disoccupazione, che li conduca a partecipare attivamente? E soprattutto, come educarli, come educarli ai veri valori e al rispetto degli altri?

7. Senza questa educazione ai valori morali, nel popolo e presso i suoi responsabili o futuri responsabili, ogni costruzione della pace resta fragile; essa è votata all’insuccesso, quali che siano l’abilità dei diplomatici o le forze impiegate. Spetta agli uomini politici, agli educatori, alle famiglie, ai responsabili dei mass media contribuire a questa formazione. E la Chiesa è sempre pronta a portare il suo contributo.

Non è necessario che io esponga qui nei particolari questi valori morali. Si pensi alla lealtà, alla fedeltà agli impegni presi, all’onestà, alla giustizia, alla tolleranza, al rispetto degli altri – della loro vita, delle loro condizioni di vita, della loro razza – alla condivisione, alla solidarietà . . . I cristiani amano congiungere tutte queste virtù sociali alla carità, all’amore, e fondarle sulla dignità trascendente di ogni persona umana di cui Dio è garante e sull’esempio di Cristo.

Ma si va abbastanza lontano nel rispetto dell’uomo? Non si dovrebbe cominciare dall’embrione umano? Oggi si moltiplicano le manipolazioni genetiche, le esperienze audaci, che passano velocemente da un Paese all’altro. Questi problemi divengono in qualche modo internazionali. Chi oserebbe dire che non si tratta che di prodezze tecniche? Che non si vedono i gravi problemi umani che sono in causa e che si dovranno trovare delle soluzioni sul piano del diritto, sul piano dell’etica? Il rispetto dei valori morali a questo livello fa parte del rispetto dell’uomo che è alla base della pace, che comincia evidentemente dal rispetto della vita umana. Ogni Paese, soprattutto se dispone di potenti mezzi di influenza, deve misurare la sua responsabilità quanto al valore etico delle tecniche, dei metodi o concezioni più o meno morali o settarie che esporta o lascia esportare.

8. Infine, la Chiesa sa bene che è difficile guarire gli uomini dalla tentazione della guerra, dell’egoismo, dell’odio. Si dice talvolta che essa è utopica. Ma non è ingenua al punto da pensare che si riuscirà sulla terra ad esorcizzare ogni violenza. Nell’esortazione post-sinodale pubblicata nel dicembre scorso, Reconciliatio et paenitentia, ho parlato di “un mondo scosso fin dalle fondamenta”. E per noi, le radice di queste lacerazioni è una ferita nel cuore stesso dell’uomo, il peccato originale. Il dramma dell’umanità – molti filosofi l’hanno riconosciuto – è un dramma spirituale, un dramma soprattutto dell’umanesimo ateo (Giovanni Paolo II, Reconciliatio et paenitentia, 2). Ma, pur sapendo che su questa terra non si può realizzare la definitiva riconciliazione degli uomini con Dio, con gli altri, con se stessi, con la creazione, la Chiesa vuole lavorarvi con ardore, come segno, abbozzo e testimonianza del mondo che verrà. Essa crede sempre che la liberazione del cuore peccatore dell’uomo, mediante il perdono e l’amore, è possibile, che il progresso del dialogo, della riconciliazione, della fraternità è possibile, soprattutto se gli uomini si riconciliano con Dio. Sua parte specifica è lavorare a questo livello, nella sua catechesi e nei suoi sacramenti. Ma essa si impegna anche nell’opera di riconciliazione sociale, innanzitutto con l’azione della Santa Sede e dei suoi diversi organismi. Essa vuole mettere la sua struttura istituzionale e la sua autorità morale al servizio della concordia e della pace (cf. Ivi, 25).

È questo ciò di cui, spero, voi continuerete ad essere testimoni qui. Il mio proposito era di esporvi le realizzazioni della Santa Sede – che sono ben al di sotto dei nostri desideri e del nostro ideale – ma soprattutto di incoraggiarvi, eccellenze, signore, signori, a concorrere voi stessi alla creazione del clima di reciprocità, di solidarietà e di collaborazione internazionale di cui abbiamo parlato. È l’onore della vostra nobile professione, soprattutto quando voi l’esercitate presso un’autorità spirituale. Noi avremo contribuito insieme a preparare un mondo più umano, più degno degli uomini e di Dio. Affidiamo questo progetto all’ispirazione e alla grazia di Dio. Invoco su ciascuno di voi la sua benedizione. Sta qui l’essenziale degli auguri cordiali che sono lieto di rinnovarvi.

 

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