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VISITA PASTORALE  IN VENETO

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AL CLERO DIOCESANO E AI RELIGIOSI
NELLA CATTEDRALE DI VITTORIO VENETO

Treviso - Sabato, 15 giugno 1985

 

Carissimi Sacerdoti, Religiosi, Religiose e Membri degli Istituti Secolari, che, attorno al caro Fratello Vescovo Eugenio Ravignani e sotto la sua guida, svolgete giorno per giorno i compiti della pastorale diretta nell’esercizio del sacro ministero o in altre attività di apostolato; e voi, dilettissimi alunni del Seminario!

1. Il mio cuore si apre a voi in piena effusione. Vi dice molto di più di quanto possa salire alle labbra nello spazio di pochi minuti.

Vi dice anzitutto il mio profondo affetto, che esprimo mediante il saluto “in osculo sancto”, diretto a tutti e a ciascuno, senza dimenticare i Confratelli a cui non è stato possibile essere materialmente presenti, e sono uniti a noi nel vincolo della carità. Desidero in particolare che si sentano ricordati con peculiare trasporto di anima gli oltre duecento missionari - sacerdoti diocesani e religiosi di origine vittoriese - che costituiscono le propaggini della diocesi in Africa, in America Latina e nella pastorale degli emigrati in Germania e Francia. La lontananza geografica non allenta l’intensità del legame familiare.

Prima di tutto ringrazio sentitamente per le iniziative di preghiera e meditazione, a cui avete dato vita “in orante attesa”, affinché la visita del Papa fosse spiritualmente preparata e potesse ottenere dal Signore grazie abbondanti. In particolar modo vi ringrazio per le celebrazioni quotidiane promosse durante tutto il mese di maggio, con le quali è stata invocata l’intercessione della Madonna Santissima, e per la Veglia di preghiere con cui mi avete aspettato.

È stato il dono più prezioso che potevate farmi, ed è motivo per sperare che il breve passaggio tra voi del successore del Pontefice, che giustamente chiamate “vostro”, possa essere apportatore di benefici spirituali a questa amata porzione della Chiesa universale.

2. Sotto le volte della chiesa cattedrale, si ridesta il soave sentimento delle primizie presbiterali.

Sento spiritualmente presente tra noi, festoso e incoraggiante, Giovanni Paolo I. Con dolcezza e gravità, egli ripete la sua candida confessione: “Io ricordo come uno dei punti solenni della mia esistenza il momento in cui, messe le mie mani in quelle del vescovo, ho detto: “Prometto”. Da allora mi sono sentito impegnato per tutta la vita e non ho mai pensato che si fosse trattato di una cerimonia senza importanza” (Insegnamenti di Giovanni Paolo I, p. 85).

È un invito a profonde riflessioni. Che cosa ne ho fatto della mia vocazione? Come vado rispondendo al dono della divina chiamata? Che cosa avrò da offrire al Signore nel momento del supremo incontro al termine della mia giornata terrena?

Questi e molti altri simili interrogativi, soliti a bussare alla porta della coscienza, scuotono l’animo alla fedeltà. Tutte le strade della vita reclamano fedeltà. La chiede a titolo particolarissimo il sacerdozio ministeriale, che conforma a Cristo, rende strumenti della grazia, abilita a un servizio che non può essere sostituito neppure dall’angelo.

È il motivo primordiale - ma non il solo - per cui il sacerdozio comporta uno sforzo tenace, assiduo, generoso verso la santità. Tra sacerdozio e santità corre un rapporto sostanziale. Così che la santità sta, per molti aspetti, alla radice della missione presbiterale, costituisce un punto di irradiazione e, per altro verso, di attrazione. Qui sta il nocciolo del problema della verità del nostro sacerdozio.

Il Cristo continua ad affermare di noi: “Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo . . . Per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17, 16. 19).

3. “Sentire il loro sacerdote abitualmente unito a Dio è, oggi, il desiderio di molti buoni fedeli” (Insegnamenti di Giovanni Paolo I, p. 56). Così si esprimeva Giovanni Paolo I nel discorso-colloquio con il presbiterio di Roma, nel quale commentava il proposito, precedentemente annunciato, di “conservare intatta la grande disciplina della Chiesa nella vita dei sacerdoti e dei fedeli” (Ivi, p. 15).

La grande disciplina - sono sue parole - “esiste soltanto se l’osservanza esterna è frutto di convinzioni profonde e proiezione libera e gioiosa di una vita vissuta intimamente con Dio” (Ivi, p. 56).

Il presbiterio diocesano deve essere un cenacolo il cui distintivo è una spiritualità genuina, cercata e sostenuta attraverso la preghiera individuale e collettiva, resa intensa mediante iniziative specifiche di raccoglimento e di riflessione, collaudata nel campo dell’azione. L’attività pastorale, avulsa da questa base, diventerebbe sterile attivismo.

Bisogna poi mettere in forte rilievo che, quanto più la cultura tende a sganciarsi dal sacro e a mettere in discussione il concetto cristiano della vita, tanto più si fa urgente la necessità di vivere a fondo la spiritualità a livello sia individuale sia comunitario. Diversamente, resterebbero senza successo le formule anche più aggiornate, magari escogitate con l’ausilio delle più avanzate scienze umane. Per non dire del pericolo di un progressivo allontanamento dalla verità del Vangelo. Gli obiettivi della tipica spiritualità sacerdotale, inoltre - ma l’osservazione vale per tutte le forme di particolare consacrazione -, costituiscono un vincolo di prim’ordine per la crescita della comunione fraterna, intesa in se stessa, e vista in rapporto alla collaborazione pastorale e alla sua efficacia.

La sorgente della concordia, dell’unità d’impostazione e di indirizzo non potrà essere trovata altrove, pur tenendo conto della giusta varietà dei metodi che oggi sono richiesti alla catechesi e all’evangelizzazione. E ancora a questa sorgente bisogna attingere, per dare un contributo specificamente ecclesiale alle questioni che angustiano la società e insensibilmente la orientano verso soluzioni di stampo materialistico in nome di un’illusoria liberazione che prima o poi si traduce in schiavitù.

4. Tra le priorità pastorali del nostro tempo, vorrei indicare l’apostolato della gioventù.

So bene che da voi l’apostolato giovanile vanta una tradizione ragguardevole. Ne fanno fede, per numero e qualificazione, le associazioni e i movimenti cattolici con le loro istituzioni e attività, e insieme, le organizzazioni di ispirazione cattolica operanti in campo sociale, caritativo, assistenziale.

So che il Consiglio pastorale diocesano, dopo un attento studio, ha individuato alcuni punti concreti di lavoro, al fine di intensificare su linee organiche la pastorale giovanile. Nell’esprimervi il mio più sentito compiacimento, sottolineo in particolare una delle esigenze emerse: quella di pensare a una pastorale non per i giovani, ma dei giovani, nella quale essi siano inseriti come membri attivi e partecipi, affinché possano dare il loro contributo di pensiero e di corresponsabilità, di vivacità e di entusiasmo.

Un piano di tale genere presuppone un’accentuata consapevolezza dei vari ruoli. Non si può pretendere dai giovani ciò che essi non sono in grado di dare per non aver ancora acquisito quell’esperienza che è frutto degli anni. Né i giovani possono presumere di sostituirsi ai pastori e a coloro che sono rivestiti di peculiari responsabilità.

La presenza del sacerdote accanto al giovane, si tratti del giovane singolo come dei gruppi giovanili, è di fondamentale importanza. Lo è come valorizzazione del sacerdozio, sull’esempio di Gesù, che ha dedicato tempo e attenzioni privilegiate alle nuove generazioni. E lo è come missione verso la gioventù stessa, che ha bisogno di solidarietà, di comprensione e soprattutto di amore disinteressato.

Questo è un compito particolarmente impegnativo. Su di esso ho attirato l’attenzione nella Lettera ai sacerdoti in occasione del Giovedì Santo, chiamando a meditare sull’ineffabile colloquio del Signore con il giovane anonimo, di cui parlano i tre Vangeli sinottici. Consentitemi di riproporvi oggi quelle considerazioni, riassumendole in una proposizione scultorea, mutuata dal testo evangelico: “Fissatolo, lo amò” (Mc 10, 21). Cambiano i tempi e con essi molte cose cambiano. Ma il cuore dell’uomo rimane sempre il medesimo. Ha sempre bisogno di amore. I metodi pastorali, aggiornandosi per quanto possibile alle nuove necessità e cercando strumenti più perfezionati, hanno bisogno di ispirarsi all’amore, il quale solo può indicare in ogni circostanza le vie più sicure.

5. Un aspetto particolare, a cui non posso non accennare, è la pastorale delle vocazioni.

È consolante la ripresa, avvenuta in questi anni, del seminario diocesano. Io sono lieto di salutarvi, carissimi seminaristi, insieme con gli alunni del Noviziato internazionale dei Missionari della Consolata. Voi siete la speranza, siete il domani.

Non mi stanco di affermare che la vitalità di una Chiesa locale si misura col metro delle vocazioni. La vitalità di Vittorio Veneto, dunque, è buona. Ma il bene deve crescere. È urgente, perciò, prospettare ai ragazzi e ai giovani, con l’esempio della vita e con ogni opportuno intervento, la grandezza, la bellezza, la ricchezza della chiamata del Signore al sacerdozio ministeriale e alla speciale consacrazione. La stasi di vocazioni negli ultimi anni ha lasciato molti vuoti. Nonostante la promettente ripresa in atto, nel prossimo futuro, man mano che il Signore chiamerà al premio i suoi servitori, mancheranno forze sufficienti a compensare le scomparse. Triste previsione, che spinge a mobilitare tutte le energie atte a configurare una pastorale in favore delle vocazioni che sia profonda, vasta, incisiva, concretamente articolata, in modo che nulla vada disperso, per quanto dipende da noi, della generosità con cui Dio continua a chiamare i suoi eletti.

Qui si apre un vastissimo campo di attività, che coinvolge la famiglia, la parrocchia, la scuola, particolarmente gli istituti cattolici d’istruzione e di educazione, le associazioni e i Movimenti, in particolare l’Azione Cattolica: ricca corona dell’accostamento individuale, soprattutto in sede di direzione spirituale, che rimane il momento insostituibile.

Io auspico con tutto il cuore che l’impulso del Centro diocesano e l’attività del seminario contribuiscano a rendere sempre più intensa l’animazione delle vocazioni, nell’atmosfera dell’insistente preghiera che tutto deve permeare: “Rogate, rogate Dominum messis” (Mt 9, 38).

6. Ho accennato alla famiglia. Essa è, generalmente, la prima culla della vocazione. La vocazione è dono di Dio, ma la risposta è decisione della persona. L’ambiente familiare esercita, da questo punto di vista, un influsso notevole, che può essere determinante.

Ma alla Chiesa preme la famiglia per ciò che essa è nel piano di Dio: santuario dell’amore, nido della vita, cellula della comunità dei credenti e della società.

Alla famiglia vanno rivolte cure pastorali appropriate, nel suo nascere e nel suo svolgimento.

Mi è perciò di grande gioia sapere che nei programmi della diocesi occupa un posto particolare un piano di concreta pastorale familiare.

È un obiettivo di amplissima portata. Esso non può essere realizzato che sulla concezione del matrimonio come itinerario di fede, visto cioè nella visione del piano di Dio e nella luce del Cristo, nella concretezza delle situazioni esistenziali. Esso abbraccia la famiglia fin dal suo germogliare, quando è ancora oggetto di un sogno dei due giovani. Accompagna lo snodarsi di quel “sogno” perché si avvii limpido alla realizzazione, superando gli scogli di una mentalità che si coagula nella convivenza priva di vincoli giuridici e morali. Segue i coniugi nelle difficoltà e nelle crisi di vario tipo, e li aiuta, con tutte le forme possibili di sostegno, ad approfondire ogni giorno di più il loro amore nella verità. L’azione positiva, condotta con costanza e con chiarezza d’idee, è la via efficace per prevenire quei mali che contaminano la famiglia, ne minacciano la stabilità, ne corrodono l’unità e la pace.

Il compito di pastore d’anime vi trova un campo delicato e urgente di applicazione. Ma, come scrivevo nella Familiaris consortio, tutti i figli della Chiesa devono sentirsi chiamati a uno sforzo particolare. “Essi, che nella fede conoscono pienamente il meraviglioso disegno di Dio, hanno una ragione in più per prendersi a cuore la realtà della famiglia, in questo nostro tempo di prova e di grazia” (Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, 86).

7. Carissimi membri degli istituti di particolare consacrazione, voi avete certamente compreso che quanto ho detto fin qua riguarda anche la vostra missione. Io vorrei confermarvi nella fedeltà al vostro particolare carisma che è destinato, oltre che ad assicurare lo sforzo di perfezione evangelica alla quale il Signore vi ha chiamato, ad arricchire il tessuto ecclesiale.

La vostra presenza, la vostra partecipazione al lavoro pastorale - che sono tanto apprezzate - costituiscono davvero un contributo prezioso, anzi insostituibile.

Termino con un’esortazione che ricavo dal cuore pastorale del Vescovo Albino Luciani e del Papa Giovanni Paolo I: siate i “buoni samaritani” in mezzo la Popolo di Dio e alla società. Alla parabola del buon samaritano - come vi è noto - egli si era ispirato per un corso di esercizi spirituali al clero, denso di riflessioni, che concludeva con un consiglio pieno di speranza: “Se hai qualche compito difficile, non demoralizzarti, non perdere il coraggio, mai, mai. Ma con l’energia ricevuta da Dio, tieni duro. Non fidarti delle tue sole forze, ma pensa che c’è anche il Signore che ti aiuta, qualunque sia il tuo posto” (Albino Luciani, Il Buon Samaritano, Padova 1980, p. 369). Fidando in Dio e chiamando a raccolta tutte le energie, verrà continuamente irrobustita la speranza, quella speranza che - affermava Giovanni Paolo I - è obbligatoria per ogni cristiano.

Perché sia davvero così, invoco fervidamente su tutti voi le più elette grazie celesti, mentre, in pegno del mio perseverante affetto, vi imparto di cuore l’Apostolica Benedizione.



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