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VISITA PASTORALE IN SARDEGNA

VISITA NELLA MINIERA DI MONTEPONI

INCONTRO DI GIOVANNI PAOLO II
CON I MINATORI

 Monteponi (Cagliari) - Venerdì, 18 ottobre 1985

 

1. Vi saluto di gran cuore, carissimi minatori, lieto di essere in mezzo a voi per questo incontro che mi è particolarmente caro. Il vostro lavoro rappresenta una tradizione che risale lontano nei secoli, perché il suolo della vostra Isola nasconde sue specifiche ricchezze. Questa vostra miniera, che sarò lieto di visitare tra poco, risale al tempo dei fenici.

Una testimonianza della mia pastorale sollecitudine per voi minatori, che vi trovate non di rado ad agire in condizioni eccezionalmente dure, è il fatto che, nel comporre l’enciclica Laborem Exercens, destinata all’esame dei problemi del lavoro, ho voluto riservarvi una speciale menzione (cf. Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 9).

Con pari affetto saluto i lavoratori delle industrie metalmeccaniche e, più in generale, i rappresentanti delle varie categorie di lavoratori qui convenuti da tutta l’isola. Ho ascoltato con vivo interesse le parole che uno di voi mi ha rivolto, e assicuro che le preoccupazioni da lui espresse a nome di tutti trovano nel mio animo eco sentita e profonda. Ringrazio anche il Presidente dell’ENI, Professor Francesco Reviglio, per l’indirizzo che mi ha gentilmente rivolto.

Il mio pensiero va anche alle vostre amate famiglie, cari lavoratori: alle vostre spose e ai figli, per il cui benessere voi spendete generosamente le vostre energie. Ritornando a casa, portate loro il mio saluto cordiale.

Ho desiderato che uno dei primi incontri del mio viaggio pastorale in questa forte terra di Sardegna fosse dedicato a voi, per darvi un segno dell’importanza che la Chiesa annette alla vita del mondo operaio.

Vengo a voi, cari fratelli, spinto dal sentimento più vivo di fraterna solidarietà e mosso dalla convinzione che, nonostante difficoltà di ogni genere, anche un tipo di attività come la vostra non deve essere di ostacolo alla realizzazione dei grandi obiettivi che danno senso e dignità alla vita.

Prima dell’avvento del cristianesimo, la fatica fisica, come ogni altra forma di sacrificio e di sofferenza, era considerata soltanto una fatalità insopprimibile della nostra esistenza, priva di orizzonti di luce. Gli antichi romani consideravano, in particolare, la miniera un luogo di condanna e, con la crudezza della stessa espressione latina “damnare ad metalla”, già significavano una sorte senza ritorno. Mi piace ricordare, a questo punto, che uno dei miei predecessori, il Papa San Ponziano, il primo Pontefice che abbia messo piede sul suolo sardo, diciassette secoli or sono, vi fu inviato quale condannato alla miniera a motivo della sua impavida professione cristiana. E oggi la Chiesa, venerandolo come martire, intende rendere omaggio a un uomo che ha testimoniato la fede fino all’ultimo sacrificio.

Le condizioni nelle quali si svolge oggi il vostro lavoro non sono più, per fortuna, quelle di allora. Esse restano, tuttavia, molto pesanti e questo vi addita a una speciale riconoscenza da parte dell’intero corpo sociale. Grazie, infatti, al lavoro oscuro portato avanti nelle profondità della terra, la comunità può far proprie nuove ricchezze, ivi nascoste, ed elaborarle per il sostentamento e lo sviluppo di tutta la famiglia umana.

Questo è infatti il disegno di Dio: chiamare l’uomo a collaborare, mediante l’impegno della mente e del braccio, nell’opera grandiosa di “soggiogare la terra”. E allora, cari lavoratori della Sardegna, voi siete sempre presenti al cuore della Chiesa, che, in forza della sua fedeltà a Cristo, vi guarda con occhi di particolare amore e di sincera sollecitudine.

2. Fin dal primo sorgere della cosiddetta “questione sociale”, nel secolo scorso, come conseguenza del fenomeno della grande industrializzazione, la Chiesa si è impegnata a seguirne passo passo il cammino, scegliendo di restare vicino a chi più soffre ed è indifeso ed elevando tempestivamente la propria voce contro le sistematiche violazioni della dignità della persona umana, lo sfruttamento dell’operaio, il manifestarsi di crescenti fasce di miseria e addirittura di fame.

Nel corso dei passati decenni, la Chiesa con molteplici interventi ha rivendicato per l’operaio il diritto a un lavoro dignitoso, equamente retribuito per sé e per la famiglia, e ha fatto appello a “nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro” (Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 8).

Evitando di dare al problema una visione riduttiva, la Chiesa vede il lavoro umano nell’insieme delle sue grandi componenti, sotto l’aspetto religioso, umano, familiare e sociale. Essa è consapevole che solo la fede dà un senso compiuto al lavoro collocando l’uomo - che per sua natura è lavoratore - al centro dell’universo, in rapporto con Dio. Solo così si pone il fondamento trascendente di una giustizia, che non è più lasciata all’arbitrio degli interessi di parte o al gioco delle interpretazioni ideologiche. L’attività umana di qualsiasi tipo diventa in tal modo fattore di umanizzazione, di evangelizzazione e di autentico progresso.

3. Carissimi lavoratori, in sintonia con l’insegnamento dei Papi che mi hanno preceduto, io non mi stanco di ripetere a tutti, ai gruppi dirigenti e alle forze sociali, che il valore del lavoro umano non può essere ridotto a semplice processo di produzione o considerato soltanto in rapporto alla sua finalità economica.

Concezioni di questo genere hanno creato, purtroppo, le premesse di grandi ingiustizie, con conseguenze assai negative nell’evoluzione morale e civile della società. Con tali impostazioni di fondo, infatti, si altera profondamente la vera nozione del lavoro, si priva il lavoratore delle prerogative sue proprie, si distorce la verità stessa dell’uomo, che resta umiliato nella sua dignità più profonda.

La persona umana non si esaurisce nella realtà temporale, tanto meno si esaurisce nel suo lavoro.

Un segno di questa preminenza dell’uomo sulla logica della produzione è certamente da vedersi nel diritto al riposo festivo; da intendere non solo come interruzione del lavoro economico-produttivo e recupero delle forze fisiche, ma anche come tempo libero non finalizzato all’economia, che permette alla persona umana di curare di più la vita sociale, religiosa, di ritrovare se stessa, assumendo i valori superiori d’amore, d’amicizia, di preghiera, di contemplazione (cf. Gaudium et spes, 60 -61; Paolo VI, Populorum Progressio, 20).

4. Tutti sappiamo che non è difficile per l’uomo degradarsi a causa del lavoro; tocchiamo ogni giorno con mano in concreto la dura realtà che vari sono i modi di sfruttare il lavoro umano per farne un mezzo di oppressione dell’uomo. Ma sappiamo pure che, al contrario, mediante il lavoro l’uomo, quando è posto nella sua giusta prospettiva di protagonista del mondo in cui opera, può realizzare se stesso come uomo e anzi, in certo senso, diventare più uomo (cf. Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 9). La dignità dell’uomo non si misura da quello che egli fa, dalla sua capacità di trasformazione e di elaborazione dei prodotti della terra, dalla quantità del suo profitto materiale ma da quello che egli è.

Dico di più: mediante il lavoro egli può realizzare se stesso come cristiano e, in certo senso, essere più cristiano. Ciò diventa possibile quando l’uomo, dando al lavoro il significato che esso ha agli occhi di Dio, si lascia guidare dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Allora egli si avvicina a Dio, entra nell’opera della salvezza, e il suo lavoro diviene un esercizio di fede e uno stimolo di elevazione e di preghiera.

Questa considerazione non stupisce se si riflette che al lavoro partecipa l’uomo intero, il corpo e lo spirito, indipendentemente dal fatto che il lavoro svolto sia manuale o intellettuale. Giustamente, perciò, la Chiesa ricorda il dovere di elaborare una spiritualità del lavoro nel senso cristiano dell’espressione (cf. Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 24).

Ecco perché la Scrittura Santa presenta alla nostra considerazione due quadri assai ricchi di contenuto, che io voglio qui soltanto richiamare. Nel Giardino della Genesi il primo uomo, creato da Dio, fu anche il primo lavoratore. Nella Nuova Alleanza a Nazaret, accanto alla casa di Maria, c’era un’officina di falegname, dove prima Giuseppe operaio, poi Gesù, divenuto operaio anche Lui, lavoravano per guadagnarsi il pane quotidiano, come voi, come tutti i lavoratori del mondo, col sudore della propria fronte, per il sostentamento della famiglia.

La famiglia! Essa rappresenta il legame vitale, che dà al lavoro la sua carica di amore. Motore universale, l’amore anima la finalità sociale del lavoro e lo trasforma in servizio per la costruzione di una società di fratelli: la civiltà, appunto, dell’amore.

5. Cari fratelli operai, debbo ancora richiamare un altro aspetto di questo problema, per arricchire il quadro che ne propone la visione cristiana.

Il Libro della Genesi insegna che l’esperienza dolorosa di un lavoro eseguito “col sudore della fronte” (Gen 3, 19) è conseguenza del peccato commesso all’inizio dall’uomo. Il peccato, carissimi, è una tragica realtà da non dimenticare: esso sta all’origine dei mali della società e delle sofferenze dell’uomo. La Chiesa, impegnata a favorire l’eliminazione delle ingiustizie dal mondo del lavoro, non è meno impegnata, sotto la guida di Dio, a combattere il peccato e a ridurne le conseguenze. Tuttavia essa è realisticamente consapevole che, nonostante gli sforzi, il dolore continua a far parte della vita del mondo. Leone XIII, il grande pontefice, che con tanta lungimiranza analizzò i problemi del lavoro, scrisse in proposito parole che oggi, alla luce della verità storica, appaiono profetiche. Egli raccomandò di non lasciarsi ingannare da chi vuol “togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali” (Leone XIII, Rerum Novarum, 14).

Il cristiano accetta il peso e la pena della fatica anche come espiazione della colpa, purificazione dell’anima, ritorno all’innocenza perduta. Ma questa concezione penitenziale del lavoro, che pure riveste la sua non trascurabile importanza, non significa rinunzia allo sforzo di cambiare le situazioni d’ingiustizia, né disimpegno dal dovere di migliorare in concreto la società. Essa vuol dire semplicemente inserimento consapevole nel mistero di un disegno divino di amore che chiede la collaborazione dell’uomo per la salvezza di tutta l’umanità e l’elevazione del mondo, trasformando l’elemento comune e diffuso del dolore in strumento di grazia. Senza questa prospettiva evangelica è impossibile comprendere il sacrificio della Croce e associarsi al suo valore immenso.

6. Nel parlare a voi, cari lavoratori, convenuti così numerosi da vari settori della Sardegna per riascoltare alcune linee importanti dell’insegnamento sociale della Chiesa, così ricco di fermenti e di potenzialità, è chiaro che io auspico per voi, per tutti i lavoratori sparsi nell’Isola, nell’Italia e nel mondo, e in particolare per quelli che, come voi minatori, affrontano situazioni ambientali più dure, un miglioramento delle condizioni di vita e una legislazione coraggiosa, che liberi sempre più dal pericolo di asservimento al lavoro strettamente produttivo. Vi assicuro che questa prospettiva, per me, che sono stato operaio come voi, fa parte delle mie preghiere quotidiane e della mia costante sollecitudine pastorale. E desidero vivamente che la mia esortazione vi spinga a impegnarvi a crescere umanamente e spiritualmente.

Tuttavia, mentre il mio sguardo si posa su vari settori di questa vostra assemblea, il pensiero non può fare a meno di correre verso un altro scenario, che tanto rattrista il cuore di tutti noi. È lo spettacolo, efficacemente evocato da chi ha parlato a nome vostro, di una massa di giovani di quest’Isola tenace e laboriosa i quali, per mancanza di lavoro, sono costretti ad incrociare le braccia.

Si sa che il fenomeno della disoccupazione colpisce oggi in percentuali crescenti quasi tutti i Paesi della società più industrializzata. Ma costituisce motivo di grande dolore e preoccupazione constatare, scorrendo le statistiche, che la Sardegna risulta essere una delle aree più colpite.

Senza dubbio, come ho più volte rilevato, il fenomeno può essere risolto in maniera soddisfacente solo con una giusta e razionale coordinazione di iniziative nell’ambito della comunità nazionale e anche col ricorso a trattati e accordi di collaborazione internazionale (cf. Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 18). In questo momento, però, desidero rivolgere il mio appello a tutte le autorità nazionali e regionali, a tutte le forze politiche e sociali che hanno a cuore il vero bene dell’uomo, perché, con impegno prioritario, moltiplichino i loro sforzi allo scopo di suscitare iniziative, di razionalizzare la coordinazione, perché la piaga diffusa della disoccupazione venga efficacemente affrontata, in tempi brevi ridotta, e via via definitivamente eliminata.

Sono sicuro che le organizzazioni ecclesiali, a ogni livello, sono disponibili ad offrire la loro piena collaborazione.

Con queste prospettive per l’immediato futuro, benedico di cuore tutti e ciascuno di voi, augurandovi un futuro sereno, allietato da un adeguato benessere, nel contesto di una società più giusta e concorde.  



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