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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AGLI OFFICIALI E AGLI AVVOCATI
DEL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA

Lunedì, 25 gennaio 1988

 

1. Le sono vivamente grato, monsignor Decano, per le nobili parole con cui ha interpretato i comuni sentimenti di augurio. A lei rivolgo il mio saluto cordiale, che estendo al Collegio dei prelati uditori del Tribunale della Rota Romana, agli officiali che ne fanno parte, ai componenti dello Studio Rotale e alla schiera di avvocati rotali, che vedo largamente rappresentata.

L’annuale incontro con voi costituisce per me una gradita occasione per sottolineare la importanza del vostro delicato servizio ecclesiale, e per esprimervi il mio apprezzamento e la mia gratitudine. Esso mi dà, inoltre, la possibilità di fare insieme con voi qualche riflessione circa l’attività giudiziaria nella Chiesa.

2. Nell’odierno incontro, riprendendo il discorso avviato l’anno scorso (“Allocutio ad Rotam Romanam habita”, die 5 febr. 1987: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X, 1 [1987] 270 ss), intendo richiamare la vostra attenzione sul ruolo del difensore del vincolo nei processi di nullità matrimoniale per incapacità psichica.

Difensore del vincolo, come magistralmente notava Pio XII (Pii XII “Allocutio ad Sacram Romanam Rotam”, die 2 oct. 1944: AAS 36 [1944] 281), è chiamato a collaborare per la ricerca della verità oggettiva circa la nullità o meno del matrimonio nei casi concreti. Ciò non significa che spetti a lui valutare gli argomenti pro o contro e pronunciarsi circa il merito della causa, ma che egli non deve costruire “una difesa artificiosa, senza curarsi se le sue affermazioni abbiano un serio fondamento oppure no” (Pii XII “Allocutio ad Sacram Romanam Rotam”, die 2 oct. 1944: AAS 36 [1944] 281).

Il suo specifico ruolo nel collaborare alla scoperta della verità oggettiva consiste nell’obbligo “proponendi et exponendi omnia quae rationabiliter adduci possint adversus nullitatem” (Codex Iuris Canonici, can. 1432).

Siccome il matrimonio, che riguarda il bene pubblico della Chiesa, “gaudet favore iuris” (Codex Iuris Canonici, can. 1060), il ruolo del difensore del vincolo è insostituibile e di massima importanza. Di conseguenza la sua assenza nel processo di nullità del matrimonio rende nulli gli atti (Codex Iuris Canonici, can. 1433).

Come già ebbi a ricordare, negli ultimi tempi “si notano a volte tendenze che purtroppo tendono a ridimensionare il suo ruolo” (“Allocutio ad Sacrae Romanae Rotae Tribunalis Praelatos Auditores, Officiales et Advocatos coram admissos”, 9, die 28 ian. 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 1 [1982] 248) fino a confonderlo con quello di altri partecipanti al processo, o a ridurlo a qualche insignificante adempimento formale, rendendo praticamente assente nella dialettica processuale l’intervento della persona qualificata che realmente indaga, propone e chiarisce tutto ciò che ragionevolmente si può addurre contro la nullità, con grave danno per la retta amministrazione della giustizia.

Mi sento, perciò, in dovere di ricordare che il difensore del vincolo “tenetur” (Codex Iuris Canonici, can. 1432) e cioè ha l’obbligo - non la semplice facoltà - di svolgere con serietà il suo compito specifico.

3. La necessità di adempiere tale obbligo, assume una particolare rilevanza nelle cause matrimoniali, in sé molto difficili, che riguardano l’incapacità psichica dei contraenti. In esse, infatti, possono facilmente aversi confusione e fraintendimenti - che ebbi a sottolineare l’anno scorso - nel dialogo fra lo psichiatra o lo psicologo e il giudice ecclesiastico, col conseguente uso scorretto delle perizie psichiatriche e psicologiche. Ciò richiede che l’intervento del difensore del vincolo sia davvero qualificato e perspicace, così da contribuire efficacemente alla chiarezza dei fatti e dei significati, diventando anche, nelle cause concrete, una difesa della visione cristiana della natura umana e del matrimonio.

Voglio ora limitarmi a rilevare due elementi, ai quali il difensore del vincolo deve prestare una particolare attenzione nelle suddette cause, e cioè la corretta visione della normalità del contraente e le conclusioni canoniche da trarre in presenza di manifestazioni psicopatologiche per indicare alla fine i relativi compiti di colui che deve difendere il vincolo.  

I

4. È nota la difficoltà che nel campo delle scienze psicologiche e psichiatriche gli stessi esperti incontrano nel definire, in modo soddisfacente per tutti, il concetto di normalità. In ogni caso, qualunque sia la definizione data dalle scienze psicologiche e psichiatriche, essa deve sempre essere verificata alla luce dei concetti dell’antropologia cristiana, che sono sottesi alla scienza canonica.

Nelle correnti psicologiche e psichiatriche oggi prevalenti, i tentativi di trovare una definizione accettabile di normalità fanno riferimento soltanto alla dimensione terrena e naturale della persona, quella cioè che è percepibile dalle medesime scienze umane come tali, senza prendere in considerazione il concetto integrale di persona, nella sua dimensione eterna e nella sua vocazione ai valori trascendenti di natura religiosa e morale. In tale visione ridotta della persona umana e della sua vocazione, si finisce facilmente per identificare la normalità, in relazione al matrimonio, con la capacità di ricevere e di offrire la possibilità di una piena realizzazione nel rapporto col coniuge.

Certamente, anche questa concezione della normalità basata sui valori naturali ha rilevanza per la capacità di tendere ai valori trascendenti, nel senso che nelle forme più gravi di psicopatologia viene compromessa anche la capacità del soggetto di tendere ai valori in genere.

5. L’antropologia cristiana, arricchita con l’apporto delle scoperte fatte anche di recente nel campo psicologico e psichiatrico, considera la persona umana in tutte le sue dimensioni: la terrena e l’eterna, la naturale e la trascendente. Secondo tale visione integrale, l’uomo storicamente esistente appare interiormente ferito dal peccato ed insieme gratuitamente redento dal sacrificio di Cristo.

L’uomo dunque porta in sé il germe della vita eterna e la vocazione a far proprii i valori trascendenti; egli, però, resta interiormente vulnerabile e drammaticamente esposto al rischio di fallire la propria vocazione, a causa di resistenze e difficoltà che egli incontra nel suo cammino esistenziale sia a livello conscio, ove è chiamata in causa la responsabilità morale, sia a livello subconscio, e cioè sia nella vita psichica ordinaria, che in quella segnata da lievi o moderate psicopatologie, che non influiscono sostanzialmente sulla libertà della persona di tendere agli ideali trascendenti, responsabilmente scelti.

In tal modo egli è diviso - come dice san Paolo - tra Spirito e carne, avendo “la carne desideri contrari allo Spirito e lo Spirito desideri contrari alla carne” (Gal 5, 17), e nello stesso tempo è chiamato a vincere la carne e a “camminare secondo lo Spirito” (cf. Gal 5, 16. 25). Anzi, egli è chiamato a crocifiggere la carne “con le sue passioni e i suoi desideri” (Gal 5, 24), dando cioè a questa lotta inevitabile e alla sofferenza che essa comporta - quindi anche ai suddetti limiti della sua libertà effettiva - un significato redentore (cf. Rm 8, 17-18). In questa lotta “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza” (Rm 8, 26).

Quindi, mentre per lo psicologo o psichiatra ogni forma di psicopatologia può sembrare contraria alla normalità, per il canonista, che si ispira alla suddetta visione integrale della persona, il concetto di normalità, e cioè della normale condizione umana in questo mondo, comprende anche moderate forme di difficoltà psicologica, con la conseguente chiamata a camminare secondo lo Spirito anche fra le tribolazioni e a costo di rinunce e sacrifici. In assenza di una simile visione integrale dell’essere umano, sul piano teorico la normalità diviene facilmente un mito e, sul piano pratico, si finisce per negare alla maggioranza delle persone la possibilità di prestare un valido consenso.  

II

6. Il secondo elemento sul quale intendo soffermarmi è connesso col primo e riguarda le conclusioni Tenendo presente che solo le forme più gravi di psicopatologia arrivano ad intaccare la libertà sostanziale della persona e che i concetti psicologici non sempre coincidono con quelli canonici, è di fondamentale importanza che, da una parte, la individuazione di tali forme più gravi e la loro differenziazione da quelle leggere sia compiuta attraverso un metodo scientificamente sicuro, e che, dall’altra, le categorie appartenenti alla scienza psichiatrica o psicologica non siano trasferite in modo automatico al campo del diritto canonico, senza i necessari adattamenti che tengano conto della specifica competenza di ciascuna scienza.

7. A tale proposito, inoltre, non deve essere dimenticato che difficoltà e divergenze esistono all’interno della stessa scienza psichiatrica e psicologica per quanto concerne la definizione di “psicopatologia”.

Certo, vi sono descrizioni e classificazioni che raccolgono un maggior numero di consensi, così da rendere possibile la comunicazione scientifica. Ma è proprio in relazione a queste classificazioni e descrizioni dei principali disturbi psichici che può nascere un grave pericolo nel dialogo tra perito e canonista.

Non è infrequente che le analisi psicologiche e psichiatriche condotte sui contraenti, anziché considerare “la natura e il grado dei processi psichici che riguardano il consenso matrimoniale e la capacità della persona ad assumere gli obblighi essenziali del matrimonio” (“Allocutio ad Rotam Romanam habita”, 2, die 5 febr, 1987: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X,1 [1987] 271), si limitino a descrivere i comportamenti dei contraenti nelle diverse età della loro vita, cogliendone le manifestazioni abnormi, che vengono poi classificate secondo una etichetta diagnostica. Occorre dire con franchezza che tale operazione, in sé pregevole, è tuttavia insufficiente ad offrire quella risposta di chiarificazione che il giudice ecclesiastico attende dal perito. Egli deve perciò richiedere che questi compia un ulteriore sforzo, spingendo la sua analisi alla valutazione delle cause e dei processi dinamici sottostanti, senza fermarsi soltanto ai sintomi che ne scaturiscono. Solo tale analisi totale del soggetto, delle sue capacità psichiche, e della sua libertà di tendere ai valori autorealizzandosi in essi, è utilizzabile per essere tradotta, da parte del giudice, in categorie canoniche.

8. Si dovranno altresì prendere in considerazione tutte le ipotesi di spiegazione del fallimento del matrimonio, di cui si chiede la dichiarazione di nullità, e non solo quella derivante dalla psicopatologia. Se si fa solo un’analisi descrittiva dei diversi comportamenti, senza cercarne la spiegazione dinamica e senza impegnarsi in una valutazione globale degli elementi che completano la personalità del soggetto, l’analisi peritale risulta già determinata ad una sola conclusione: non è infatti difficile cogliere nei contraenti aspetti infantili e conflittuali che, in una simile impostazione diventano inevitabilmente la “prova” della loro anormalità, mentre forse si tratta di persone sostanzialmente normali, ma con difficoltà che potevano essere superate, se non vi fosse stato il rifiuto della lotta e del sacrificio.

L’errore è tanto più facile, se si considera che sovente le perizie si ispirano al presupposto secondo cui il passato di una persona non solo aiuta a spiegare il presente, ma inevitabilmente lo determina, così da toglierle ogni possibilità di libera scelta. Anche in questo caso, la conclusione è predeterminata, con conseguenze ben gravi, se si considera quanto sia facile trovare nell’infanzia e nell’adolescenza di ciascuno elementi traumatizzanti ed inibenti.

9. Un’altra possibile e non infrequente fonte di fraintendimenti nella valutazione delle manifestazioni psicopatologiche è costituita non dall’eccessivo aggravamento della patologia ma, al contrario, dalla indebita sopravvalutazione del concetto di capacità matrimoniale. Come annotavo lo scorso anno (“Allocutio ad Rotam Romanam habita”, 6, die 5 febr. 1987: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X, 1 [1987] 273), l’equivoco può nascere dal fatto che il perito dichiara l’incapacità del contraente non in riferimento alla capacità minima, sufficiente per un valido consenso, bensì all’ideale di una piena maturità in ordine ad una vita coniugale felice.  

III

10. Il difensore del vincolo, nelle cause riguardanti l’incapacità psichica, è chiamato quindi a fare costante riferimento ad una adeguata visione antropologica della normalità, per confrontare con essa i risultati delle perizie. Egli dovrà cogliere e segnalare al giudice eventuali errori, a tale proposito, nel passaggio dalle categorie psicologiche e psichiatriche a quelle canoniche.

Contribuirà così ad evitare che le tensioni e le difficoltà, inevitabilmente connesse con la scelta e la realizzazione degli ideali matrimoniali, siano confuse con i segni di una grave patologia; che la dimensione subconscia della vita psichica ordinaria venga interpretata come un condizionamento che toglie la libertà sostanziale della persona; che ogni forma di insoddisfazione o di disadattamento nel periodo della propria formazione umana sia intesa come fattore che distrugge necessariamente anche la capacità di scegliere e di realizzare l’oggetto del consenso matrimoniale.

11. Il difensore del vincolo deve inoltre badare che non vengano accettate come sufficienti a fondare una diagnosi, perizie scientificamente non sicure, oppure limitate alla sola ricerca dei segni abnormi, senza la dovuta analisi esistenziale del contraente nella sua dimensione integrale.

Così, ad esempio, se nella perizia non si fa alcun cenno alla responsabilità dei coniugi né ai loro possibili errori di valutazione, o se non si considerano i mezzi a loro disposizione per rimediare a debolezze o errori, v’è da temere che un indirizzo riduttivo pervada la perizia, predeterminandone le conclusioni.

Ciò vale anche per il caso in cui il subconscio o il passato siano presentati come fattori che non solo influiscono sulla vita conscia della persona, ma la determinano, soffocando la facoltà di decidere liberamente.

12. Il difensore del vincolo, nell’adempimento del suo compito, deve adeguare la sua azione alle diverse fasi del processo. Spetta a lui innanzitutto, nell’interesse della verità oggettiva, curare che al perito si facciano le domande in modo chiaro e pertinente, che si rispetti la sua competenza e non si pretendano da lui delle risposte in materia canonica. Nella fase dibattimentale poi dovrà saper valutare rettamente le perizie in quanto sfavorevoli al vincolo e segnalare opportunamente al giudice i rischi della loro scorretta interpretazione, avvalendosi anche del diritto di replica che la legge gli consente (Codex Iuris Canonici, can. 1603, § 3). Scorgendo infine, in caso di sentenza affermativa di primo grado, deficienze nelle prove sulle quali essa si basa o nella loro valutazione, non ometterà di interporre e giustificare l’appello.

Comunque, il difensore del vincolo dovrà rimanere all’interno della sua specifica competenza canonica, senza per nulla voler competere col perito o sostituirsi a lui nel merito della scienza psicologica e psichiatrica.

Tuttavia, in forza del canone 1435, che richiede da lui “prudenza e zelo per la giustizia”, deve saper riconoscere, sia nelle premesse sia nelle conclusioni peritali, gli elementi che occorre confrontare con la visione cristiana della natura umana e del matrimonio, vegliando che sia fatta salva la corretta metodologia del dialogo interdisciplinare con la dovuta osservanza dei rispettivi ruoli.

13. La particolare collaborazione del difensore del vincolo nella dinamica processuale fa di lui un operatore indispensabile per evitare fraintendimenti nel pronunciamento delle sentenze, specialmente là dove la cultura dominante risulta contrastante con la salvaguardia del vincolo matrimoniale assunto dai contraenti al momento delle nozze.

Quando la sua partecipazione al processo si esaurisse nella presentazione di osservazioni soltanto rituali, ci sarebbe fondato motivo per dedurne una inammissibile ignoranza e/o una grave negligenza che peserebbe sulla coscienza di lui, rendendolo responsabile, nei confronti della giustizia amministrata dai tribunali, giacché tale suo atteggiamento indebolirebbe la effettiva ricerca della verità, la quale deve essere sempre “fondamento, madre e legge della giustizia” (“Allocutio ad Tribunalis Sacrae Romanae Rotae Decanum, Praelatos Auditores, Officiales et Advocatos, novo Litibus iudicandis ineunte anno”, 1, die 4 febr. 1980: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III [1980] 310).

14. Mentre sono riconoscente per la sapiente e fedele opera dei difensori del vincolo di codesta Rota Romana e di molti altri Tribunali ecclesiastici, intendo incoraggiare la ripresa ed il rafforzamento di tale qualificato ruolo, che auguro sia sempre assolto con competenza, chiarezza, ed impegno specialmente perché ci troviamo di fronte a una crescente mentalità poco rispettosa della sacralità dei vincoli assunti.

A voi, e a tutti gli operatori della giustizia nella Chiesa, imparto la mia benedizione.

 

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