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VISITA PASTORALE ALL’ARCIDIOCESI DI FERRARA-COMACCHIO

INCONTRO DI GIOVANNI PAOLO II
CON I VESCOVI DELLA REGIONE EMILIA ROMAGNA
PRESSO LA TOMBA DI DON GIOVANNI MINZONI

Duomo di Argenta (Ferrara) - Domenica, 23 settembre 1990

 

Signor presidente della Repubblica italiana,
la ringrazio per la sua presenza.
Ringrazio e saluto tutte le autorità civili e militari,
venerati fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
carissimi fratelli e sorelle!

1. A voi il mio saluto deferente e cordiale. Ho desiderato questo incontro che si pone in una cornice tanto particolare, perché volevo esprimervi il mio apprezzamento per le molte cose belle che ho incontrato visitando le Chiese dell’Emilia-Romagna. Mi premeva in special modo parteciparvi la mia soddisfazione per l’intensità della fede e la robusta vitalità delle opere che ho potuto rilevare in larghi strati della popolazione. Mi ha colpito in essa, tra le altre cose, una sorta di fierezza, che mi è sembrato di leggere sul volto dei fedeli di queste vostre Chiese tanto provate: la fierezza di chi è consapevole del prezzo che la coerenza con la propria scelta di fede può comportare. Si direbbe che le lunghe e dure prove sostenute abbiano acuito nei figli della Chiesa, che qui vivono e operano, il senso della “sfida” portata da Gesù sulla terra con l’annuncio del Vangelo: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada” (Mt 10, 34).

In questa prospettiva acquista tutto il suo significato questo nostro incontrarci presso la tomba di un sacerdote, don Giovanni Minzoni, che nell’esercizio del ministero ha versato il suo sangue. Nel rendere a lui omaggio, noi intendiamo fare memoria dei tanti suoi confratelli che hanno sacrificato la loro vita per la fedeltà alla missione di pastori di anime.

Sono essi il messaggio più eloquente che la generazione cristiana di ieri consegna a quella di oggi. Noi siamo qui per ascoltarli con l’umiltà e lo stupore dei primi cristiani, che vedevano nel rinnovarsi del dono della vita da parte di loro fratelli e sorelle nella fede un messaggio del Cristo risorto alla sua Chiesa, impegnata a testimoniarlo davanti agli uomini di ogni tempo.

Il punto dove il testimone di Cristo era caduto diveniva così il luogo della “confessione” della fede di tutta la Chiesa. Lì si celebrava l’Eucaristia con l’altare posto sopra le sue reliquie, quasi a fare un corpo unico, sacrificato in due tempi, ma offerto sempre insieme “come ostia vivente, santa, gradita a Dio” (Rm 12, 1).

2. A dieci passi da qui c’è il punto preciso dove don Minzoni è caduto bagnando di sangue i sassi della strada. Argenta stasera diventa quasi il luogo della “confessione” corale di quel corteo di sacerdoti che, come don Minzoni, sono caduti nell’esercizio generoso del loro ministero. Che cosa “confessano” questi moderni testimoni della fede? Essi dicono che a spingerli a preferire la morte anticipata, piuttosto che l’infedeltà al mandato pastorale, è stato un amore più grande di loro: lo stesso amore assoluto con cui Dio li aveva amati. È stato Dio a incominciare per primo questa gara di amore, sacrificando il Figlio suo Gesù Cristo; essi si sono limitati a seguirlo).

In questa confessione - espressa non parlando, ma morendo - sta il valore della loro testimonianza. Nella loro vicenda si ripropone al nostro sguardo tutto il mistero cristiano, con l’intatta purezza, la serietà, la potenza delle origini. Proprio per questo, sono essi il messaggio adatto per una comunità cristiana che si chiede come affrontare il nuovo millennio che è ormai alle porte. Perché, dunque, non partire dalla loro testimonianza per la nuova evangelizzazione, che i tempi esigono ormai con urgenza?

3. Ma proviamoci a penetrare in quel segreto più intimo del testimone della fede, che è il momento della decisione definitiva. Sono le ultime confidenze di don Minzoni a un prete suo consigliere, pochi giorni prima della morte: “Mi fanno colpa dell’influenza spirituale che ho nel paese... ma che debbo farci se il paese mi vuole bene? Come un giorno per la salvezza della patria offersi la mia giovane vita, felice se a qualche cosa potesse giovare, oggi mi accorgo che battaglia più aspra mi attende: ci prepariamo alla lotta tenacemente e con un’arma che per noi è sacra e divina, quella dei primi cristiani: preghiera e bontà. Ritirarmi sarebbe rinunciare a una missione troppo sacra. A cuore aperto, con la preghiera che spero mai si spegnerà sul mio labbro per i miei persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte per il trionfo della causa di Cristo. La religione non ammette servilismi, ma il martirio”.

Se è vero, come è vero, che è lo Spirito di Cristo a suggerire la risposta ultima di chi è esposto a minacce di morte per la sua fedeltà al Vangelo, queste parole sono da ascoltare in religioso raccoglimento e, per così dire, in ginocchio. Sono parole presaghe dell’immolazione ormai prossima.

Il dono d’una fedeltà senza riserve alla propria missione don Minzoni l’aveva chiesto come grazia della prima Messa. Di due cose era convinto: che accettando di accorciare la vita per amore di Cristo avrebbe pagato sempre meno di quanto Dio aveva pagato per lui, e che accorciare la vita per amore dei suoi - prima i suoi soldati al fronte, i suoi ragazzi e la sua gente poi - era la via più sicura per raggiungere il perfetto amore di Dio, realizzando al massimo il suo sacerdozio. In questa tensione interiore verso il perfetto amore di Dio e la dedizione estrema alla sua gente, sta tutto il segreto di don Minzoni: “Signore - annotava nel suo diario - fatemi sempre lavorare e vi prometto che sarò buono”. E poco dopo: “Senza un’attività sacerdotale temerei di perdermi”.

In questa concezione unitaria del sacerdozio, che non sopportava spaccature tra l’amore di Dio e la cura pastorale dei fedeli, è da ricercare la ragione che lo portò alla sfida mortale. Il fatto che la gente gli volesse troppo bene, che i ragazzi, compresi i figli di chi era lontano dalla Chiesa, gli corressero dietro, era diventato intollerabile per il potere totalitario. E lui, posto di fronte alla stretta finale, rispose: “Sono pronto a morire”.

4. Il modulo del sacrificio della propria vita per gli altri si ripeterà identico vent’anni più tardi con i sacerdoti uccisi prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale: anch’essi saranno considerati nemici pericolosi perché legati alla propria gente, o perché capaci di farsi innanzi per proteggere i più deboli, per protestare o per supplicare, o perché - e sarà il caso più frequente - pronti a soccorrere caritatevolmente, in obbedienza al Vangelo, i nemici dell’una o dell’altra parte in conflitto.

Tanto don Minzoni quanto i suoi confratelli, nell’esercizio del loro ministero, entrarono in urto con uomini che traevano ispirazione dall’una o dall’altra delle ideologie totalitarie e neopagane, che hanno segnato dolorosamente questo nostro secolo. Esse costituivano una negazione diretta della verità sull’uomo, creato a immagine di Dio ed elevato, in Cristo, alla dignità di figlio suo, come ci dice la rivelazione, che accogliamo nella fede.

In causa era, dunque, la persona umana; in causa era l’amore di Dio per tutti gli uomini. Perciò questi nostri fratelli nella fede che, contro tali avversari, difesero i diritti della persona umana, elevata, in virtù della grazia di Cristo, a una dignità senza uguali (cf. Gaudium et spes, 22), non fecero che obbedire a un’esigenza derivante dalla fede. E quando, guidati dall’amore più puro per i fratelli, essi si spinsero, in questa difesa, fino al dono supremo della vita, il loro gesto poté ben essere considerato come una vera e propria testimonianza di fede.

In una società secolarizzata ciò che offende non è sempre la professione della fede in Dio; a fare paura è il legame tra il pastore e la sua gente, soprattutto il legame con le nuove generazioni. Per salvarsi dalla morte, al sacerdote spesso non è comandato di rinnegare direttamente la fede, ma l’amore cristiano: non di dissociarsi da Dio, ma dall’una o dall’altra porzione del gregge, rinunciando ad essere pastore di tutto il popolo. Nuovo il genere di sacrificio, ma identico l’amore che lo ha ispirato, perfettamente uguale il costo: torturati e straziati, questi ministri di Cristo hanno ricalcato le orme degli antichi testimoni della fede.

Il loro messaggio ci appare oggi estremamente attuale e tutto lascia prevedere che questa sarà la sfida su cui si giocherà il prossimo futuro. Le conquiste culturali, i progressi scientifici e tecnologici, l’impegno economico e la stessa azione politica si muoveranno intorno a questo asse centrale: l’affermazione dell’uomo, dei suoi diritti essenziali, del suo trascendente destino.

5. Fratelli e sorelle delle Chiese che vivono in Emilia-Romagna! È proprio in questa prospettiva che io vi dico: rimettete nel massimo onore l’eredità inestimabile della testimonianza eroica di amore cristiano, resa dai vostri sacerdoti! Dedicate una nuova attenzione alle ricchezze che vi sono racchiuse, e ricuperatene la connessione con tutto il mistero cristiano.

Tenete viva la memoria di questi vostri eroici sacerdoti, testimoni dei diritti dell’uomo, oltre che di quelli di Dio. Riconoscete in loro il frutto e il segno inconfondibile della presenza operante di Cristo risorto nella sua Chiesa. Una generazione che si misura su coloro che han dato la vita per Cristo e per i fratelli difficilmente finirà nell’abitudine o nel compromesso. Essa sarà anzi portata a purificarsi; riscoprirà in umiltà e stupore l’esaltante prospettiva della propria vocazione; riproporrà nell’attualità di oggi la fede delle origini; presenterà al mondo un’immagine credibile di sé e della sua missione, rendendo “quasi visibile Dio Padre e il Figlio suo incarnato” (Gaudium et spes, 21).

6. Carissimi sacerdoti dell’Emilia-Romagna: ho desiderato rivedervi, insieme con i vostri vescovi, per dirvi tutto il mio affetto e la mia fiducia. Nessuno meglio di voi può capire ciò che è passato nell’animo di quei vostri confratelli, della cui testimonianza voi andate giustamente fieri. Dal loro esempio voi avete imparato a essere i pastori di tutti: tutti sono vostri e voi siete di tutti. Perseverate in questo atteggiamento, grazie al quale il vostro ministero potrà esplicarsi in tutta la sua ampiezza. Spendetevi generosamente per gli altri, per voi chiedete solo la libertà di amare nella misura di Dio.

Abbiate sempre presente l’esempio dei vostri confratelli, che si sono sacrificati nell’adempimento della loro missione. Essi sono con voi, vi precedono, quasi ad aprirvi la strada, così che possiate misurare i vostri passi sulle loro orme, che sono le stesse di Cristo.

Tendete al perfetto amore con cui Cristo ha amato voi. Coltivate un geloso rapporto personale con lui nel segreto del cuore, dove nelle ore delle grandi decisioni si è sempre soli, soli con lui. Nei momenti difficili possa ciascuno di voi udire echeggiare nell’animo la voce del Maestro: “Per questo il Padre mi ama, perché offro la mia vita” (Gv 10, 17). L’esperienza di questo speciale amore del Padre ha certamente confortato gli ultimi istanti di don Minzoni e di quanti come lui hanno saputo dare la vita per i fratelli.

Una parola ancora voglio dire ai giovani che si preparano al sacerdozio. Immagino che cosa significhi per voi, cari seminaristi, una giornata come questa e come vibri il vostro animo davanti a modelli così eroici di donazione totale. A voi ricordo semplicemente che il porsi al seguito di Cristo significa mettere in conto la prospettiva di un simile percorso. È necessario quindi, coltivare in se stessi un amore sincero e profondo per Cristo e per i fratelli. È necessario disporre il proprio cuore alla donazione totale. E aggiungo con Caterina da Siena: “Strappatevi i denti di latte e metteteci i denti forti dell’odio (al male) e dell’amore (a Cristo e alla Chiesa)”.

Questo vi consentirà di essere domani testimoni coraggiosi del suo Vangelo e di contribuire efficacemente all’avvento del suo regno nel mondo: un regno di pace e di solidarietà vera, nel quale nessun privilegio dovrà restare che non sia quello necessario per assicurare una vita degna al povero, al debole, all’ultimo.

Con questo auspicio, a tutti vorrei impartire la mia affettuosa benedizione. Ringrazio il signor presidente della Repubblica ancora una volta e le autorità civili e militari per la loro partecipazione.

 

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