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VIAGGIO APOSTOLICO IN POLONIA E UNGHERIA
(13-20 AGOSTO 1991)

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AGLI ANZIANI E AGLI AMMALATI

Basilica di Santo Stefano (Budapest) - Martedì, 20 agosto 1991

 

Carissimi anziani e malati!

Sono grato a Dio per questo incontro con voi nel mio primo viaggio pastorale in terra d’Ungheria, ed è con grande affetto che vi porgo il mio saluto cordiale. A tutti il mio augurio di pace, di speranza e di consolazione, nella luce del Cristo crocifisso e risorto!

San Paolo ci ricorda che, “come in un solo corpo abbiamo molte membra, e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri” (Rm 12, 4-5).

Nei miei viaggi pastorali cerco di incontrare tutte le membra del Corpo Mistico di Cristo, per riconoscerne e avvalorarne la rispettiva missione nell’ambito della Chiesa. A tutte va la mia stima sia per il servizio che svolgono a vantaggio del gregge del Signore, sia per l’evidenza con cui in esse rifulge qualche aspetto dell’immagine di Cristo. Ma a voi, carissimi fratelli e sorelle che vedo qui davanti a me, a voi che soffrite per qualche malattia, infermità, o per l’età avanzata riconosco un titolo peculiare di merito tra le membra del Corpo di Cristo, un titolo che in qualche modo investe anche quanti, standovi accanto per assistervi partecipano alla vostra sofferenza per i vincoli del sangue o della carità operosa.

La vostra presenza richiama al mio cuore la larga schiera di coloro che, nel Paese, soffrono come voi e forse non hanno nessuno che stia loro accanto assicurando, oltre alla necessaria assistenza, l’indispensabile sostegno umano della simpatia e dell’amore. Vorrei ricordare, in particolare, i bambini abbandonati dai loro genitori ed affidati ad istituti statali, nei quali non può esser loro offerto quel clima di tenerezza e di amore che tanta importanza riveste per una crescita serena ed armoniosa. Con affetto ugualmente partecipe, il mio pensiero va a tutti i portatori di handicaps, nella consapevolezza che la loro sofferenza non deriva soltanto dalle ferite che segnano il loro corpo o il loro spirito, ma a volte anche dal non sentirsi accettati e rispettati dagli altri membri della società.

2. In questo momento di intensa comunione, carissimi fratelli e sorelle, desidero riaffermare che in voi e in loro risplende come in nessun altro la comunione col mistero di Cristo, il Crocifisso, il quale soffrendo per amore ha redento il mondo.

Questa verità, che scaturisce dalla fede, raramente è compresa dal mondo. Quante volte coloro che soffrono per età o malattia percepiscono con amarezza che l’ambiente circostante li considera come persone inutili, ridotte soltanto ad essere un peso per gli altri. Occorre reagire a questa mentalità utilitaristica e sottilmente disumana, riscoprendo sempre nuovamente il significato e la funzione della sofferenza. Il credente deve riflettere senza sosta sul valore della partecipazione alle sofferenze di Cristo, per vivere e far vivere più intensamente la vocazione particolare, insita nella condizione di anzianità o di malattia.

La parola rivolta da Dio al popolo eletto: “Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo” (Is 43, 4), ha valore innanzitutto per coloro che soffrono. Ricordate l’episodio di Samuele, quando per comando di Dio s’accinse ad ungere re uno dei figli di Jesse? Il profeta pensava di dover scegliere fra loro chi si distingueva per statura e prestanza; ma Dio intervenne per ammonirlo: “Non guardare al suo aspetto, né all’imponenza della sua statura... Io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1 Sam 16, 7). Gli uomini, si sa, apprezzano la ricchezza, il potere, la forza fisica, la bellezza, l’acume intellettuale. Per Dio, invece, è importante soprattutto la prontezza generosa con cui s’accetta la propria vocazione e ci s’impegna ad eseguire il proprio compito. Il malato che accoglie la volontà di Dio e si sforza di adempierla, vale davanti ai suoi occhi più del sano che mira al proprio successo tra l’ammirazione e l’invidia del mondo.

Beati quanti sanno riconoscere la mano di Dio nella prova e non dimenticano la sua parola rassicurante: “Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo” (Ap 3, 19; cf. Pr 3, 12). Dio non si lascia vincere in generosità. A volte è proprio con la sofferenza che Egli bussa alla porta del cuore, nel desiderio di instaurare un particolare rapporto di amicizia che, se corrisposto, può assumere il calore e l’intimità di un’esperienza conviviale: “Cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3, 20).

3. Carissimi, nei momenti bui tenete lo sguardo fisso alla Madre del Redentore, quando accolse la voce profetica: “Anche a te, una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2, 35). Ricordate che anche sulle labbra di Gesù risuonò l’inquietante domanda: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46).

La Scrittura ci insegna che il Padre portò a compimento nell’umanità di Gesù la più grande perfezione “attraverso le sofferenze” (Eb 2, 10). Fu “per mezzo delle cose che patì” (Eb 5, 8-9) che Gesù arrivò ad un’esperienza singolarmente profonda dell’ubbidienza.

È vero, purtroppo, che in questa ascensione verso la santità mediante la sofferenza si può anche venir meno e desistere. C’è chi nel dolore si chiude, diventando insensibile verso gli altri; c’è chi nell’amarezza si dispera. La sofferenza, senza la cooperazione intelligente e coraggiosa della persona, non salva automaticamente dalla superficialità e dall’egoismo. Occorre lottare. Ma in questo impegno non si è mai soli, non lo si è neppure per un istante. Sta accanto a noi il Padre che ci tiene per mano ed effonde generosamente in noi il suo Santo Spirito, per farci crescere nella consapevolezza di essergli figli. Proprio mediante l’esperienza della nostra fragilità siamo portati a scoprire la presenza amorosa di Dio e a gridare il nostro dolore verso Colui che solo può donarci il vero sollievo. La sofferenza diventa così scuola di preghiera sentita, insistente e fiduciosa.

Colui che soffre cercando di fare la volontà di Dio è utile al prossimo. Anche se impedito nell’attività esterna, anche se isolato nella solitudine, egli irradia intorno a sé un’onda di luce spirituale a cui molti altri possono attingere.

Non è forse vero che in questo vostro Paese non pochi hanno conservato o riacquistato la fede grazie alla testimonianza di persone di famiglia anziane o malate, le quali fin dall’infanzia avevano avuto un’educazione religiosa e attraverso le prove della vita avevano approfondito la loro unione con Dio? Molte persone, di fronte a questi credenti anziani e sofferenti, hanno capito che la fede, quando non è semplice abitudine sentimentale ma sincera persuasione, diventa sorgente inesauribile di forza e di consolazione; hanno intuito quanto sia bello e desiderabile poter considerare Gesù come amico onnipotente e tenero, dal quale tutta la vita riceve sostegno e significato. In una parola, molti sono stati condotti verso la fede da chi quotidianamente traeva dalla propria fede la forza per fare della malattia la cattedra di una testimonianza tanto più convincente quanto più silenziosa.

Ma anche se nessuno si accorgesse e nessuno accettasse in modo esplicito la testimonianza del sofferente, il suo dolore sarebbe egualmente utile e prezioso per l’efficacia misteriosa ma reale, che esso esercita nell’ottenere la grazia che salva. Di ciò voi siete consapevoli: ne avete infatti la prova inoppugnabile nella passione stessa del Signore. Non è forse parola ispirata quella che ammonisce: “Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo” (1 Pt 1, 18-19)? Cristo ci ha ottenuto il perdono, la conversione, la nuova vita, non mediante l’impegno organizzativo, la promozione di servizi sociali, l’avvio di scuole o di altre iniziative simili. Egli ci ha salvati mediante la sofferenza e la morte, offerte al Padre in atteggiamento di sottomissione e di obbedienza.

Ora, questa è la verità consolante: in quest’opera di salvezza Cristo Signore accetta anche la nostra collaborazione.

Egli fa suo il nostro sacrificio, dandoci la forza di offrire al Padre, insieme con Lui, la nostra debolezza, la solitudine, la sofferenza, la morte. Non è forse questo l’insegnamento di Paolo: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24)?

In un certo senso, l’efficacia della sofferenza dei credenti potrebbe essere paragonata a quella del sacrificio eucaristico: non aggiunge nulla alla forza della Croce, ma la manifesta, consentendo alla grazia che da essa promana di espandersi in tutti i tempi e in tutti i luoghi.

4. Fratelli e sorelle, quando dopo una giornata segnata da disagi e dolori, giunge la sera, pensate che Gesù Cristo sta accanto a voi, fissa lo sguardo sul vostro volto e vi attesta la sua gratitudine, perché avete perseverato con lui nella sofferenza per la salvezza del mondo. Quale gioia sarà, un giorno, ascoltare la voce del Salvatore risorto: “Voi siete coloro che hanno perseverato con me nelle mie prove, e io preparo per voi un regno” (Lc 22, 28-29)! Allora si potrà dire veramente: “Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno i primi” (Lc 13, 30)! Quando sarete giunti al suo cospetto glorioso, molti insieme con Lui vi saluteranno con gioiosa gratitudine, perché nelle loro lotte, nelle loro tentazioni, voi li avete aiutati, ottenendo per loro, la forza di non disperare e di non venir meno sulla strada impegnativa della fedeltà a Cristo! Potrete allora comprendere appieno la parola di Paolo: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura, che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8, 18)!

Abbiate dunque fede! Nessuno è abbandonato alla propria debolezza: Gesù Cristo, che ha sofferto per noi, vi sta accanto, vi sostiene nella fatica e vi chiede di aver fiducia in Lui. “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce, e il mio carico leggero” (Mt 11, 28-30).

5. Anche la Chiesa, carissimi, vi è accanto con le strutture della sua carità. Nel Concilio essa ha riaffermato di volersi unire, mediante l’impegno dei suoi membri, “a tutti gli uomini di qualsiasi condizione, ma soprattutto ai poveri e ai sofferenti, prodigandosi volentieri per loro” (Ad gentes, 12). Di fatto, in questi anni, la Chiesa s’è volta sempre più decisamente verso i poveri nella consapevolezza che in questa “opzione preferenziale” per loro, fatta di generosa solidarietà e di aiuto concreto, sta l’effettivo adempimento del comandamento dell’amore.

Le parole di Cristo nel giudizio finale, ho ricordato nella Lettera apostolica Salvifici doloris, “indicano come siano essenziali, nella prospettiva della vita eterna in ogni uomo, il “fermarsi”, come fece il buon Samaritano, accanto alla sofferenza del prossimo, l’aver “compassione” di essa, ed infine il dare aiuto. Nel programma messianico di Cristo, che è insieme il programma del Regno di Dio, la sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella “civiltà dell’amore””.

Carissimi, affido l’impegno di ciascuno all’intercessione di S. Elisabetta, che tutta la Chiesa conosce e venera per i meravigliosi esempi di carità operosa verso le persone in difficoltà e di paziente confidenza tra le gravi sofferenze che segnarono anche la sua vita. Nel proporre in lei il modello a cui ciascuno può ispirare la propria condotta, imparto volentieri a voi e ai vostri cari la mia benedizione, pegno della grazia e del conforto che scaturiscono dalla presenza vivificante di Gesù risorto.



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