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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
DURANTE LA VISITA AL PONTIFICIO SEMINARIO
ROMANO MAGGIORE AL LATERANO

Sabato, 20 febbraio 1993

 

“Non c’è amore più grande di chi dà la vita per gli amici” (cf. Gv 15, 13).

Sono le parole di Cristo pronunciate alla vigilia della sua Passione. Queste parole sono state, il giorno dopo, confermate, sigillate, con questo dono della vita per gli amici. Chi sono gli amici? Sono tutti gli uomini. Poteva sembrare, nel momento in cui Cristo pronunciava queste parole, che fossero gli Apostoli. Sì, certamente, ma sono anche tutti gli uomini, dall’inizio alla fine del mondo. Tutti sono amici di Cristo, Figlio di Dio fattosi uomo per questo: per dare la sua vita per gli amici, per noi tutti.

È, questa, una verità che non si misura con i criteri verbali, intellettuali, di una logica astratta. È una verità che si misura con la realtà stessa: Cristo non solamente ha pronunciato queste parole; Cristo ha fatto quello a cui accennava in queste parole. Lo ha fatto una volta per sempre. È una verità, una realtà del Vangelo, centrale, realtà chiave: qui sta tutto il Vangelo, tutta la Buona Novella, qui sta tutto il mistero divino-umano, il mistero della Redenzione. Così è stato venti secoli fa. Quando il giorno 14 agosto 1941 e, prima ancora, si stava realizzando nel campo di concentramento di Oswiecim-Auschwitz la storia riprodotta artisticamente da voi stasera, la storia di Padre Massimiliano Maria Kolbe, forse i partecipi di quell’avvenimento, di quella storia, di quel processo – perché era poi un processo di morte, morire di fame nel corso di molti giorni, fino al giorno dell’Assunta – quando tutto questo si stava compiendo in questo inferno sulla terra, come era il campo di concentramento di Auschwitz e tanti altri simili, forse immediatamente non si pensava che veniva data nel nostro secolo una testimonianza alla stessa verità, alla stessa realtà redentrice, quella che ha come suo portatore principale e per tutti, universale, Gesù Cristo.

Un altro uomo, un discepolo di Cristo, un figlio di San Francesco, ha fatto in senso analogico ma molto autentico, lo stesso gesto che ha compiuto Cristo il giorno della Passione, realizzando le parole pronunciate da Cristo il giorno prima: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per gli amici”. Un uomo, un sacerdote cattolico, come si è dichiarato davanti al comandante Fritsch, responsabile di questo campo di concentramento, un uomo, un prete cattolico ha dato la sua vita per un altro uomo, possiamo dire uno sconosciuto, perché non lo conosceva, probabilmente. Era un uomo che voleva essere salvato ed è stato salvato con questa sostituzione. Padre Kolbe si pose al suo posto, pronto a morire in quel bunker, per salvarlo dalla morte. Tutto si è fatto di nascosto, perché tutto era circondato dal clima del campo di concentramento. Sembrava dovesse restare sconosciuto, invece ne è stata data una testimonianza, e ha trovato voce: la testimonianza ha trovato subito accoglienza presso i prigionieri, i compagni di prigionia di Padre Massimiliano.

Era una testimonianza puramente evangelica e nello stesso tempo profondamente umana, in questo posto, in questo campo, in questo ambiente dove l’uomo era sistematicamente disprezzato, calpestato. In questo posto, attraverso il gesto di Padre Massimiliano, si è scoperta la dignità dell’uomo, la sua grandezza. L’uomo non va distrutto, è capace di un amore più grande. Così lo hanno vissuto, sperimentato i prigionieri di Auschwitz e così lo hanno poi ritrovato gli altri, molti, in diversi Paesi, non solamente nel mio Paese – io vivevo vicino a questo luogo; sono stato Vescovo di Cracovia ed Auschwitz si trova nella diocesi, ai confini della diocesi di Cracovia –, ma in diversi posti del mondo si è ritrovata la verità delle parole evangeliche e la realtà redentrice che queste parole hanno definito con la morte eroica, con la oblazione eroica di Padre Massimiliano Kolbe nel campo di concentramento.

Ho seguito la vostra realizzazione artistica di questo tema, Kolbe, con grande commozione, e non soltanto io, penso, ma tutti i presenti; ma soprattutto penso che questo è un tema molto adeguato all’ambiente in cui ci troviamo, perché queste parole di Cristo che lui stesso, Gesù, ha realizzato in modo unico come Redentore del mondo e di tutta la grande famiglia umana e di tutta la creazione, queste parole sono applicabili in modi diversi e non soltanto così come hanno trovato applicazione nella oblazione, nella donazione di Massimiliano Maria Kolbe. Sono applicabili sempre, dovunque: dare la vita, perderla. Il Vangelo ama questa formula radicale, lo stile del Vangelo è radicale, ma questa formula può essere anche interpretata con gesti molto più umili, semplici, di vita quotidiana. Uomo, donna, tutti, ogni persona umana – dice il Vaticano II nella “Gaudium et spes” – non può pienamente realizzare sé stesso se non attraverso il dono di sé stesso.

Ma il dono di sé stesso in realtà si realizza attraverso diversi doni nella vita quotidiana: doni che si fanno della nostra personalità, della nostra intelligenza, della nostra volontà, della nostra attività, dei nostri studi, dei nostri ministeri, diversi doni che si offrono agli altri. Vivere con quell’orientamento verso gli altri: dare sé stesso. Dare sé stesso: questo ci insegna Cristo, questo ci insegna Massimiliano Kolbe. E questo insegnamento è molto attuale in questo ambiente che è il Seminario Romano, ma non solamente nel Seminario, dappertutto: voi che siete ospiti di questo Seminario questa sera, nella vostra vita troverete tante possibilità per attuare questa verità fondamentale, verità chiave del Vangelo. C’è ancora un altro tema che voi avete introdotto nella rappresentazione del tema “Kolbe”, quello dell’Immacolata. Avete fatto molto bene, visto che siamo qui per celebrare anche la festa mariana del vostro Seminario: Maria, Madre della Fiducia. Maria, Madre di Cristo, ha diversi titoli, diverse invocazioni con cui la seguiamo, la invochiamo, la preghiamo.

Per Massimiliano, questo nome era “Immacolata”, Immacolata Concezione. Un nome dogmatico, una verità fondamentale della mariologia, ma lui personalmente si chiamava sempre molto volentieri “Cavaliere dell’Immacolata”. Era qualcosa di simile alla tradizione cavalleresca del Medioevo. Era innamorato come un Cavaliere della sua Signora, della Signora del suo cuore. Ecco, era la Signora del suo cuore e si vede con la fine della sua vita che la Signora era forte nel suo cuore, perché seppe aiutarlo, seppe farlo eroico. Era esigente, perché la stessa Maria che stava sotto la croce di Cristo, nel momento decisivo della nostra Redenzione, fu esigente, fu forte, seppe infondere questa fortezza eroica nel cuore del suo Cavaliere, Massimiliano Maria Kolbe. E poi, essendo così, fu anche riconoscente perché lo ha preso da questa terra dopo il suo martirio, lo ha preso con sé il giorno 15 agosto, il giorno dell’Assunta e così lo ha introdotto nella gloria, nella sua gloria, rendendolo partecipe della gloria del suo divino Figlio Gesù che è la gloria di sua Madre, Maria.

Nella vostra presentazione di questa tematica vediamo anche un profondo accenno mariano vicino a quello che ispira la vostra vita come seminaristi del Seminario Romano, “Madre della Fiducia”. Anche per Kolbe era “Madre della Fiducia”, con una caratteristica profondamente eroica. Per noi tutti è “Madre della Fiducia”, per voi tutti: per voi seminaristi, per voi ospiti, per voi artisti; per noi tutti, per i Vescovi, per il Vescovo di Roma.

Vi ringrazio e vi benedico.

 

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