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PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 5 gennaio 1966

 

Spirito comunitario promosso dal Concilio

Diletti Figli e Figlie!

Potremo far Nostro, per questo familiare colloquio, un verso dantesco: «Io dico seguitando . . .» (Inf. 8, 1). Seguitiamo oggi infatti un pensiero, enunciato nell’ultima udienza generale, molto ovvio e comune, un pensiero riflesso sopra il Concilio ecumenico testé concluso; un pensiero che nasce dalla domanda: qual è lo spirito, che il Concilio trasmette alla Chiesa? Per spirito qui intendiamo mentalità, principio di pensiero e d’azione, animazione, e cioè forma, attitudine, stile dell’anima, direzione del cuore, che di per sé appartiene all’ambito proprio della psicologia umana, ma che, nell’ordine della grazia, può ben essere anche pervaso dalla azione dello Spirito Santo. E dicevamo che lo spirito del Concilio deve definirsi da un carattere di accresciuto fervore religioso, morale e anche, se volete, sentimentale. Oggi Ci pare di dover rilevare un altro carattere generale dello spirito del Concilio, ed è quello comunitario. La Chiesa esce dal Concilio animata da un cresciuto spirito comunitario, da una maggiore carità, quella carità che rende fratelli i fedeli, che porta all’unione, all’amicizia, che assume aspetti sociali positivi, di concordia e di solidarietà.

Cioè la Chiesa, a Concilio finito, porta più viva con sé la coscienza della sua misteriosa e meravigliosa unità, fusa con la coscienza della sua vocazione universale, cioè della sua cattolicità. Di queste due note distintive della Chiesa, unità e cattolicità, il Concilio ha dato ai partecipanti, dentro e fuori dell’aula, una duplice esperienza:. interiore dapprima; la Chiesa in Concilio ha perfezionato la coscienza di quelle due note, e le ha riscontrate ancora una volta essere proprietà essenziali, costitutive, profonde, irrinunciabili, conferite da Cristo a quell’umanità, a quel Popolo di Dio, a quel Corpo storico e mistico, ch’Egli chiamava a partecipare della sua stessa vita e a compiere nel mondo e nel tempo la sua stessa missione. L’altra esperienza è stata esteriore, visibile, sperimentale, risultante dall’incontro dei Pastori della Chiesa, provenienti da ogni angolo della terra intorno al loro centro e al loro Capo, e destinati a diffondere in ogni angolo della terra il Vangelo di Cristo. Esperienza meditata stabile e teologica la prima, vissuta passeggera e umana la seconda; ed entrambe trasmesse a tutta la Chiesa, che si è sentita, forse come non mai, una sola famiglia, una sola cosa in Cristo.

E questo risultato di coscienza comunitaria non è stato occasionale e preterintenzionale, ma è stato uno degli insegnamenti, e quindi degli scopi, ripetuti in tutti i Decreti conciliari. Le prove non mancano. Ad esempio: una delle note salienti e ripetute della Costituzione sulla Sacra Liturgia non è forse la partecipazione comunitaria di tutti i fedeli alle celebrazioni del culto divino? E la Costituzione principale del Concilio, quella sulla Chiesa, non afferma con voce solenne che: «piacque a Dio santificare e salvare gli uomini non a uno a uno, prescindendo da qualsiasi mutua connessione, ma volle sostituirli in un popolo, che Lo conoscesse nella verità e a Lui santamente servisse» (n. 9) Le pagine di questa Costituzione sul Popolo di Dio sono serto fra le più belle della dottrina cattolica e della letteratura religiosa: nessun cristiano istruito le dovrà ignorare. Ad esse fanno seguito quella sulla Costituzione gerarchica della Chiesa, dove ancora il carattere comunitario della Chiesa stessa trova una nuova illustrazione in quella «collegialità» dell’Episcopato, che, portando nuovo suffragio alla funzione unica del Successore di San Pietro, rivela quale solidale e suprema autorità abbia nella Chiesa l’Episcopato stesso, preso nel suo insieme e costituendo un ordine, un corpo, quel Collegio, cioè, di successori degli Apostoli, che «in quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del Popolo di Dio, e, in quanto riunito sotto un solo Capo, esprime l’unità del gregge di Cristo» (n. 22).

Meriterà uno studio la nota comunitaria ricorrente nei documenti conciliari; e tale studio confermerà l’aspetto veramente ecclesiale, e cioè comunitario, che deve distinguere la società dei credenti in Cristo. È interessante notare come, da un lato, la religione cattolica mette in sempre migliore evidenza ed in più alto onore la personalità d’ogni singolo uomo (altro insegnamento caratteristico del nostro Concilio); e dall’altro lato afferma essere indispensabile per ogni fedele l’univoca adesione alla medesima fede, ed essere costitutiva della realtà ecclesiale l’appartenenza qualificata alla medesima comunione di culto e di carità.

Così che coltiverà lo spirito del Concilio chi cercherà di infondere nella vita cattolica maggiore coesione, maggiore fraternità, maggiore carità. Tutto quanto diminuisce o offende il senso comunitario è fuori della linea che il Concilio ha tracciato per il rinnovamento e per la dilatazione della Chiesa: i particolarismi, i separatismi, i preziosismi, gli egoismi, che talvolta s’insinuano anche negli animi o nei cenacoli di distinti cattolici, ovvero la noia e il disinteresse verso i fratelli, vicini o lontani che siano, dovrebbero cedere, dopo il Concilio, a quello spirito di maggiore carità fraterna, che Cristo ha voluto sia distintivo dei suoi discepoli.

Ecco perché raccomandiamo a voi, come a tutti quanti Ci ascoltano, di far proprio lo spirito comunitario del Concilio, con la Nostra Apostolica Benedizione.


Nella Clinica Pediatrica di Roma

All'omaggio del Direttore della Clinica pediatrica Sua Santità risponde con affabili parole.

Egli dovrebbe fare un elenco interminabile di persone alle quali ricambiare il saluto e rinnovare la gratitudine già espressa alle autorità iniziando la sua visita.

Desidera però ripetere al Rettore riconoscenza ed apprezzamento per l’elevatezza dei sentimenti espressi; e salutare i medici confermando la sua grande stima per loro che hanno scelto come missione quella di curare le sofferenze.

Vorrebbe poter dire ad ognuno di loro anche una sola parola di lode e di ringraziamento per la missione, di altissimo valore umano e sociale, che svolgono; e sottolineare e confortare la coscienza della loro alta professione, della loro dignità. Grande scelta è stata da essi compiuta e il Papa, oltre che dal piano umano, anche da quello religioso, spirituale, che è ancor più elevato, in unione al suo elogio e alla sua benedizione intende far discendere su di loro il ringraziamento e la benedizione di Nostro Signore Gesù Cristo.

Paolo VI accenna poi ai motivi che, tra i tanti inviti, tra le tante domande pervenutegli, lo hanno indotto a scegliere, per recarvisi nel giorno così caro e benedetto, dell’infanzia, proprio quella clinica. Si fa presto a sentire ed a cedere all’attrattiva dell’infanzia; il mondo dei bambini così pieno di poesia non lascia indifferenti al proprio incanto; ed ecco dunque il Papa a dividere con i suoi piccoli amici la gioia di un incontro.

La clinica pediatrica è un luogo di cura, di tenerezza ed anche di affanno; nel cuore di molti sarà sorto un interrogativo sul mistero del dolore, e soprattutto sul mistero del dolore innocente. Perché, perché è permesso?

La risposta a questo interrogativo angoscioso il Papa l’addita in una sfera superiore; è il campo proprio della scienza di Dio che discopre delle zone di realtà nascoste e che solo può dare una risposta.

Il Signore, innocente, ha subito il supplizio e la morte di croce: è proprio il dolore innocente che salva, e che ha salvato noi; i bambini che soffrono sono su una via regale; il dolore, nelle mani di Dio, ha il potere di riparare, di salvare: ecco inestimabili valori verso i quali dirigere le nostre cure.

L’Augusto Pontefice mostra poi ai bambini l’artistico presepio che ha loro portato in dono e li invita ad essere sempre buoni e, a conferma dei loro propositi, fa con essi il Segno della Croce e recita il Gloria Patri in italiano.

                                                       



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