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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PAOLO VI
PER L'XI GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA
PER LE VOCAZIONI

Sabato, 27 aprile 1974

 

Parlo ai giovani. A voi, giovani. Sì, specialmente. Ecco la Giornata delle vocazioni. Anche quest’anno.

Giornata mia. Cioè giornata del Pescatore. Perché questo è il primo aspetto reale dell’odierna ricorrente Giornata; si compie oggi, quasi con visibile realismo, una Parola, una promessa di Gesù Cristo. La disse a Pietro e ad Andrea, suo fratello, i quali, pescatori quali erano, stavano stendendo la loro rete nel lago di Galilea; e Gesù, camminando sulla riva, li vide e disse loro: «Venite con me; Io vi farò pescatori di uomini». Quale accento aveva quella voce? Quale figura aveva in quel momento il giovane Rabbi, che i due pescatori avevano già incontrato, poco tempo prima, giù, verso le foci del Giordano, nell’atmosfera misteriosa della predicazione messianica di Giovanni, il battezzatore? Chi sa? Il fatto è che i due pescatori - pensate! - subito abbandonarono le reti, e si misero a camminare al seguito dell’appena conosciuto Maestro. Pochi passi; e la scena si ripete a riguardo di due altri fratelli, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo; anch’essi lasciano le loro reti, lasciano anche il padre, la barca e gli aiutanti e vanno appresso a Gesù, che trae con sé, per predicare l’avvento del regno dei cieli, la piccola comitiva (Cfr. Matth. 4, 18-22).

Scena simbolica; scena profetica. È troppo fantastico pensare ch’essa si rispecchia nella mia situazione attuale? Immaginate il Papa, che traduce assai imperfettamente il profilo di Gesù, o le sembianze di Pietro; eppure è il successore di Pietro, ed è il Vicario di quel Cristo medesimo. Se ne sta, il Papa, non sulla sponda d’un lago tranquillo, ma su quella di un fiume, gonfio e vorticoso; il fiume della storia, il fiume della travolgente vita moderna, nel quale voi siete, giovani di questa irruente generazione, trascinati dalla esaltante violenza del nostro tempo, nel quale voi, come tutti, pescate a sorpresa inesauribili esperienze, stupende o tremende che siano.

Io chiamo. Io vi chiamo. Lo so ch’è un’audacia la mia, forse vana, forse importuna; ma io devo lanciare la mia voce, come Gesù: venite con me. Dirò di più: la mia è una voce grave. Venire con me comporta un dono estremamente prezioso, il dono personale di voi stessi al Signore; comporta un sacrificio senza riserve. Ma così è; io devo essere sincero: la mia voce, che vuole essere vocazione per voi, è invadente, è esigente (poi vi dirò, e da voi stessi capirete, quanto questa voce vuol essere affettuosa; e chi la seguirà, farà questa paradossale esperienza: la vocazione, penetrante, profonda, giù nei segreti della coscienza, è soavissima, è estasiante; nessuna cosa, nessun piacere, nessun amore la può superare. Ma questo verrà dopo). Ora mi basta gridare: c’è qualcuno che vuol venire? C’è qualcuno che, nel frastuono delle mille voci del nostro mondo, avverte e ascolta la mia?

Ebbene, non rifiutate almeno questo invito: provate ad ascoltare!

Mi domandate: ascoltare che cosa? Ascoltate nel mio richiamo, come primo invito, la chiamata dell’umanità. Quella chiamata che sale dall’umanità che ancor oggi invoca, che esprime le sue più autentiche esigenze, e di solito le esprime soffrendo. Invoca verità, invoca luce, invoca amore, invoca interesse, invoca guida, invoca soccorso . . . Non sentite in tale invocazione il gemito d’una speranza, seguito dal lamento della delusione, dello smarrimento, della sofferenza, della disperazione? Non avvertite il gemito di tanti bambini infelici, di tanti poveri desolati, di tanti malati bisognosi, di tanti deboli oppressi? Non vi accorgete del timido e struggente richiamo di chi non sa a chi confidare qualche proprio geloso e doloroso segreto? E non badate anche al clamore di chi lavora, di chi studia, di chi si agita, e alla fine non sa perché? Il perché della vita, chi lo può svelare? Chi può dire al fratello: «Colui che cammina dietro a me, non cammina nelle tenebre»? (Cfr. Io. 12, 35) Chi può consolare l’umanità per la vanità dei suoi sforzi, per il ridicolo delle sue vanità, per la fugacità dei suoi giorni? Chi può conferire senso e valore al sapere umano, chi purificare e fortificare l’amore, chi insegnare il vero segreto della bellezza, chi valutare la preziosità delle lacrime, chi aprire la porta su la sognata possibilità d’una vita soprannaturale?

Perché di queste domande, e di cento altre, tese alla surrealtà e alla sublimazione della vita umana, si compone la sinfonia della vocazione. Dio chiama con la parola dell’umanità aspirante alla trascendente pienezza della sua vita, che sarebbe altrimenti mancata.

Chi sa ascoltare questo coro implorante? Questo è il primo momento caratteristico della vocazione moderna: momento sociologico-religioso.

Temete la fascinazione d’un umano pietismo?

Giovani, ascoltate ancora. Ma questa volta occorre ascoltare un’altra voce amica e sapiente. Ecco il secondo momento: psicologico-religioso. Occorre lo specialista; cioè il maestro dell’anima, il direttore di spirito, occorre l’amico esperto nei segreti dei cuori.

Oggi allora la Giornata delle vocazioni diventa vostra, giovani; e diventa Giornata della Chiesa; parliamo ora della Chiesa-maestra.

Vostra, io dico a voi, giovani, quali e quanti siete capaci di carpire il linguaggio d’una vocazione straordinaria, quella al dono totale di sé, all’amore e al servizio di Cristo. Si tratta d’intercettare i segnali più misteriosi dello Spirito. Non è cosa facile. Bisogna essere iniziati ad una tecnica (scusate il termine) divinatoria; cioè occorre possedere la discretio spirituum, il discernimento della fenomenologia spirituale; potremmo valerci d’un termine oggi di moda, adattandolo al campo religioso, dicendo: occorre uno psicanalista del Vangelo. Diciamo più: occorre un carisma (Cfr. 1 Cor. 12, 10). Esigenza indispensabile, ma di non difficile soluzione, se la scelta dell’interprete desiderato cade su persona saggia e santa, che certo non manca nella Chiesa di Dio.

Ma allora, sì, la questione diventa drammatica, nel senso che la voce che chiama si duplica, in suono altrui, esterno, umano, e in suono personale, interno, ispiratore. Quale prevale? Quale è più autorevole? È questa la fase decisiva per raggiungere la sicurezza della vocazione, dalla quale può dipendere il destino d’una vita, con mille altre conseguenze. Una tensione si produce. Ma non c’è motivo di temere, per due ragioni rassicuranti. La prima è data da un’esperienza caratteristica in questa affliggente, ma poi solo apparente ambiguità, perché quando la vocazione è autentica le due voci presto coincidono, e la loro armonia sprigiona una certezza indicibile. Potremmo citare il commento del Santo Beda, detto il Venerabile, alla vocazione dell’apostolo Levi Matteo, narrata dall’evangelista Marco: «Ipse Dominus, qui hunc (Levi) exterius humana allocutione ut se sequeretur vocavit, intus divina inspiratione ut mox Vocantem sequeretur accendit» (Cfr. Beda Venerabilis; PL 92, 150). L’altra ragione proviene dal fatto che la divina chiamata al sacerdozio si esprime in definitiva mediante la voce responsabile e rassicurante della Gerarchia e l’imposizione delle mani del Vescovo, il quale certamente dovrà verificare se il candidato proceda con retta intenzione, ed abbia le indispensabili attitudini al ministero sacerdotale (Cfr. 1 Cor. 12, 7; e cfr. la controversia circa il parere del Can. Lahitton, decisa per autorità di S. Pio X, nel 1912). Siamo nel campo personale della libertà, impegnata in una scelta quant’altre mai grande e responsabile, perché rigorosamente parlando, una vocazione per sé non costituisce né obbligazione imperativa, né diritto opzionale. Il vincolo morale nasce dalla sincera volontà di un ideale più alto e di un premio più grande: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che possiedi e dàllo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi» (Matth. 19, 21). È questo un terzo momento, che si può definire: canonico-religioso.

Ma l’incertezza problematica delle vocazioni, ditelo voi, giovani, si manifesta oggi in altri, non più momenti, ma settori; e qui dovrebbe indugiare il mio discorso; o meglio, la vostra riflessione. Semplifichiamo: sono tre questi settori, nei quali si pronunciano obiezioni così forti ad una vocazione, che questa, se pur fosse ipoteticamente possibile, oggi facilmente inaridisce, come il grano infecondo della parabola.

Quali sono questi settori? Il primo è quello specificamente religioso, e riguarda non soltanto le vocazioni propriamente sacerdotali, ma anche quelle votate ad uno stato di perfezione, maschili o femminili che siano. L’obiezione si formula con una banale domanda: vale la pena? Ma poi investe sia l’analisi critica della religione, cioè della verità della nostra fede, oggi aggredita e investita dalle più radicali contestazioni filosofiche e bibliche; sia la valutazione morale dei sacrifici che una vocazione comporta. Vale la pena di giocare la propria esistenza su la formula di vita, che la Chiesa presenta come sicura interpretazione d’una fedeltà assoluta alla sequela di Cristo? E Cristo, chi è perché si abbia a fargli oblazione incondizionata della mia vita? Questa obiezione è così forte e complessa, che impegna tutte le capacità esplorative, speculative e morali, necessarie per raggiungere una certezza, una Verità vittoriosa. La quale, giovani, non è poi difficile conseguire, per via di studio, di riflessione, di consiglio, di preghiera, e, soprattutto, per via di grazia. La vocazione è una grazia. Di natura sua suppone ed esige che una Voce si faccia sentire, la voce appunto del Padre, per Cristo, nello Spirito, l’ineffabile invito: Vieni! Questa è una grazia, che ha in sé il suo potere di attrazione, di convinzione, di certezza. In fondo, non si tratta che di verificarla e poi di accettarla generosamente. E l’altro settore? Di obiezioni, di difficoltà, di ostacoli, che spesso sembrano paralizzanti e insuperabili. È quello dell’ambiente sociale. Esso ci tiene, ci assorbe, ci condiziona in modo tale, che diventa difficilissimo oggi affrancarsene e uscirne, con un abito, uno stile, un impegno di Chiesa. Una volta questo «rispetto umano» non era così forte e soverchiante. Oggi è forse l’impedimento psicologico e pratico più grave. I giovani sentono quanto è per loro fuori moda, ridicolo, inverosimile uscire dal costume comune e professare una vocazione sacerdotale o religiosa senza compromessi mondani, indecorosi per simili vocazioni. Questa uscita è un momento forte. Uno spasimo per alcuni. Ma è il momento più libero, più amoroso, più generoso, che possa qualificare una vita; una vita cristiana. Ed è solo un momento; un momento di personale coraggio.

E si entra nel terzo settore: la Chiesa; sì, la Chiesa nella sua prosaica realtà umana, storica, visibile e canonica. La Chiesa con la sua permanente contraddizione: tra l’ideale e la realtà, tanto più fastidiosa contraddizione, quanto più l’ideale è affermato sublime, evangelico, sacro, divino, e la realtà si presenta spesso meschina, angusta, difettosa, alcune volte perfino egoista e degenere. Ma è la Chiesa! Quella istituzione sociale, che ciascuno, appartenendovi, può trasfigurare, e che, per umana e gretta che talvolta essa sia, è sempre «il segno e lo strumento» della nostra salvezza, è sempre la dispensatrice dei misteri divini; è la vera, è la santa Madre Chiesa, per la quale Cristo profuse il suo amore e il suo sangue (Cfr. Eph. 5, 29). È sempre degna d’essere amata e scelta da voi, giovani! Sì, vi pone la Croce sulle spalle; ma è la Croce di Cristo, che attende il Cireneo, il quale si associ a lui per sopportarne il peso; è il dramma eroico della gloria di Dio, della salvezza del mondo, dell’incomparabile onore, a cui, giovani, siete chiamati.

Non vogliamo ora aggiungere altro. Anche se sarebbe necessario un messaggio forse più lungo del precedente.

Non possiamo infatti dimenticare tutti gli altri destinatari ai quali esso dovrebbe, fors’anche a maggior titolo, essere rivolto. Esso infatti ha carattere d’esortazione. A chi dev’essere principalmente diretta?

Ai Vescovi. Ma per loro, quest’anno, la S. Congregazione per l’Educazione Cattolica offre i risultati del convegno del novembre scorso, il quale ha avuto per oggetto il tema delle vocazioni, ampiamente studiato dalle Conferenze Episcopali, e discusso dai membri del convegno stesso (vescovi, educatori, religiosi e religiose).

Ai genitori, alle famiglie. Sì, per loro occorrerebbe un discorso speciale, che tuttavia essi potranno desumere, per gli aspetti principali del problema delle vocazioni, dal messaggio stesso indirizzato alla gioventù.

Ai superiori dei seminari, e in genere a tutti i sacerdoti e religiosi, e religiose anche, a cui è affidata l’educazione delle vocazioni. Anche per loro il problema richiede una specifica considerazione, che per ora rimettiamo alla loro saggezza, assicurando tutti della nostra speciale preghiera per l’incremento di così alto, urgente e delicato ministero.

Sappiate, figli ed amici, e voi, giovani carissimi, che è il Papa che vi parla guardando a voi con immensa affezione, con trepidante speranza, e con grande letizia. E tutti salutandovi, voi ascoltatori di questo confidente messaggio, ripete come sua e come a voi rivolta la parola dell’Apostolo Paolo:

«Ora, sì, viviamo, se voi rimanete saldi nel Signore.

E quale ringraziamento possiamo noi fare a Dio sul conto vostro per tutta la gioia che noi proviamo per causa vostra davanti al nostro Dio, giorno e notte, sempre più caldamente pregando di poter rivedere la vostra presenza e perfezionare ciò di cui ancora ha bisogno la vostra fede?» (1 Thess. 3, 8-10).

E con ciò a tutti mandiamo la nostra Apostolica Benedizione. 

Dal Vaticano, 15 Febbraio 1974

PAULUS PP. VI



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