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PAOLO VI

LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI MOTU PROPRIO

ALTISSIMI CANTUS*

PER IL SETTIMO CENTENARIO DELLA NASCITA DI DANTE ALIGHIERI

 

Del signore dell'altissimo canto, di Dante Alighieri, una data centenaria, degna di celebrazione, ricorre questo anno: sono passati sette secoli dalla sua nascita a Firenze, città generosa nutrice anche di altri agili e poderosi ingegni.

Particolarmente l'Italia in questa circostanza va a gara con varietà molteplice di manifestazioni per commemorarlo, e porgere omaggio a colui che è il suo poeta sommo e l'astro più fulgido della sua letteratura. E ciò è ben conveniente e giusto, perché Dante è il padre della lingua italiana e, come diede forma e volto alla sua civiltà, così, provvidenzialmente, attraverso le età ne è il conservatore e il custode.

Senonché anche altre non poche nazioni civili desiderano prendere parte a questa solenne rievocazione storica; e così il nome di Dante, che dovunque sulla terra rimane e sempre rimarrà aureolato di fama di gloria immortale, ora, quasi fiaccola posta su più alto luogo, più lucenti lancia i suoi raggi.

Per titolo di manifesta convenienza, a Nostro avviso, ben si addice che anche la Chiesa Cattolica sia presente in questo tributo di onoranze e di lode. Essa lo annovera, infatti, fra gli uomini illustri, adorni di valore e di prudenza, che composero carmi a regola d'arte, amanti del bello (cfr. Eccli., 14, 1-5).

Nel maestoso coro dei poeti cristiani, dove si distinguono Prudenzio, S. Efrem Siro, S. Gregorio Nazianzeno, S. Ambrogio Vescovo di Milano, S. Paolino da Nola, Venanzio Fortunato, S. Andrea di Creta, Romano il Melode, Adamo di S. Vittore, S. Giovanni della Croce e altri — passarli in rassegna tutti sarebbe molto lungo — l'aurea cetra, l'armoniosa lira di Dante risuona di mirabili tocchi, sovrana per la grandezza dei temi trattati, per la purezza dell'ispirazione, per il vigore congiunto a squisita eleganza.

Pertanto, seguendo il solco tracciato dal Nostro Predecessore Benedetto XV, che, compiendosi il sesto secolo della morte di Dante Alighieri, volle inviare una Epistola Enciclica, « In praeclaram summorum » (A.A.S. 1921 (XIII), p. 209 sg.), vogliamo noi pure tributare un atto di omaggio al Poeta, che non solo renda a lui gloria in questa circostanza, che nel corso del tempo si iscrive e dal corso del tempo è presto travolta, ma quasi la perpetui, più che un muto e freddo monumento di pietra o di bronzo, e la tramuti in sorgente perennemente zampillante in suo onore e in beneficio di giovani spiriti, che alla sua scuola si susseguano e che, fatti alunni di tanto Maestro, siano resi idonei di illustrare la sua memoria e la sua opera, così che la sua poesia verdeggi di continuata primavera nel campo delle discipline letterarie, e la sua sapienza umana e cristiana vigoreggi nella tradizione culturale del Paese, che meritatamente riconosce in Dante il padre della viva sua lingua.

A tal fine noi abbiamo stabilito di erigere, in accordo con le competenti autorità accademiche, una cattedra di Studi danteschi in seno a quel domicilio di discipline superiori, a cui tanto interessamento dedicò il nostro venerabile predecessore Pio XI, e dopo di lui i successivi Pontefici romani, fino a noi, che sempre, e specialmente durante il periodo del nostro ministero a Milano, lo abbiamo avuto in grande onore e grande affezione; vogliamo dire l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Stabiliamo pertanto Motu proprio, per Nostra iniziativa, che essa abbia la sua Cattedra Dantesca!

Ci arride infatti il pensiero che questa fondazione testimoni il culto che noi nutriamo per il cantore della Divina Commedia, lo tenga acceso in mezzo alle schiere della gioventù studiosa educata da quell'Ateneo alle migliori arti del sapere. Ne usciranno alunni — questa speranza Ci balena — intelligenti e devoti, capaci di diventare loro stessi professori di quella Filologia dantesca, donde tutti i tesori del Poeta possono essere derivati allo studio e alla reviviscenza nella cultura delle nuove generazioni.

Che se volesse qualcuno domandare, perché la Chiesa cattolica, per volere del suo visibile Capo, si prende a cuore di coltivare la memoria e di celebrare la gloria del Poeta fiorentino, facile è la nostra risposta: perché, per un diritto particolare, nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire della fede cattolica, perché tutto spirante amore a Cristo; nostro perché molto amò la Chiesa, di cui cantò le glorie; e nostro perché riconobbe e venerò nel Pontefice romano il Vicario di Cristo. Né rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d'un Pontefice romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti. Non noi nasconderemo questo momento del suo spirito e questo aspetto dell'opera sua, ben sapendo da un lato quale e quanta fosse l'amarezza dell'animo suo, la quale tanta era da non risparmiare ben più acerbi rimproveri alla stessa dilettissima sua patria Firenze, e come all'arte e alla sua passione politica si possa concedere l'indulgenza, che l'ufficio di giudice e di correttore, da lui assunto gli concilia, specialmente se a falli deplorevoli si rivolge; e conoscendo, d'altro lato, come tali fieri suoi atteggiamenti non abbiano mai scosso la sua ferma fede cattolica e la sua filiale affezione alla santa Chiesa.

Dante è nostro, possiamo ben ripetere; e ciò affermiamo non già per farne ambizioso trofeo di gloria egoista, quanto piuttosto per ricordare a noi stessi il dovere di riconoscerlo tale, e di esplorare nella opera sua gli inestimabili tesori del pensiero e del sentimento cristiano, convinti come siamo che solo chi penetra nell'anima religiosa del sovrano Poeta può a fondo comprenderne e gustarne le meravigliose spirituali ricchezze.

Catarsi e afflato religioso nella Divina Commedia

E che ciò si esiga appare dalla natura stessa del poema di Dante. Ogni poema merita questo titolo in quanto per virtù della catarsi, propria della vera arte e della poesia vera, eccita ed eleva l'animo a pensieri ed a sentimenti nuovi e possenti. Nella Divina Commedia, poi, questa elevazione in singolare e sommo grado è quella che scaturisce dal senso religioso, e più distintamente dalla fede cattolica.

La fede, «che come stella in cielo in me scintilla» (Par. XXIV, 147), e che forma il possesso più prezioso e amato del suo cuore « ... questa cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda » (ibid , 89.90), nel suo profondo e nel suo sommo e in tutte le sue parti riempie di luce e di calore questo tempio di poesia, che è tempio di fede. Per tale ragione il poema dal poeta viene chiamato sacro:

« Se mai continga che 'l poema sacro, - al quale ha posto mano e cielo e terra, - si che m'ha fatto per più anni macro, - vinca la
crudeltà che fuor mi serra - del bello ovile ov'io dormì agnello, - nemico ai lupi che li danno guerra; - con altra voce omai, con altro vello - ritornerò poeta, ed in sul fonte - del mio battesimo prenderò 'l cappello
» (Par., XXV, 1-9).

Dante coronato poeta ecumenico nel suo bel S. Giovanni

A questo punto ci sia lecito aprire la commossa espressione della soddisfazione Nostra più viva: quasi a coronare il voto e il sogno di Dante abbiamo voluto che nel suo Battistero del « bel San Giovanni » (Inf., XIX, 17), sul luogo del lavacro sacro, dove egli divenne cristiano e fu chiamato Dante, con larga partecipazione di padri del Concilio Ecumenico Vaticano II, fosse incastonato in dorato serto d'alloro il monogramma aureo dì Cristo, da Noi donato in attestazione della riconoscenza del mondo cristiano, per aver egli cantato in maniera mirabile « la verità che tanto ci sublima » (Par., XXII, 42).

L'alloro, di cui il capo di Dante Alighieri è adorno, titolo di onore e di vanto della stirpe italiana e dell'intero genere umano, certamente mai nel corso dei secoli si è inaridito o è impallidito. Tuttavia ben conveniva che di nuove fronde si rinnovellasse, per il fatto che, per la grandezza del suo ingegno e della sua opera sublime, ben si merita l'appellativo di poeta appartenente a tutte le genti ovvero ecumenico, nobilissimo, degnissimo di studio e d'ascolto.

Il Poema di Dante è universale: nella sua immensa larghezza, abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta dalla Rivelazione divina e quella attinta dal lume della ragione, i dati dell'esperienza personale e le memorie della storia, l'età sua e le antichità greco-romane, mentre ben si può dire che del Medioevo è il monumento più rappresentativo. Nel suo contenuto tesoreggia la sapienza orientale, il logos greco, la civiltà romana, e in sintesi il dogma e i precetti della legge del Cristianesimo nella elaborazione dei suoi dottori. Aristotelico nella concezione filosofica, platonico nella tendenza all'ideale, agostiniano nella concezione della storia; nella teologia è fedele seguace di San Tommaso di Aquino, tanto che la Divina Commedia è, fra l'altro, in frammenti, quasi lo specchio poetico della Somma del Dottore Angelico. Che se ciò è ben vero nelle linee generali, è altrettanto vero però che Dante è aperto a profondi influssi di Sant'Agostino, di San Benedetto, de' Vittorini, di San Bonaventura, e non è scevro di qualche influsso apocalittico dell'Abate Gioacchino da Fiore, poiché suole protendersi a cose che albeggiano o che, non ancora nate, sono in grembo del futuro.

Il fine della Commedia è primieramente pratico e trasformante

Il fine della Divina Commedia è primariamente pratico e trasformante. Non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente buona, ma in alto grado di cambiare radicalmente l'uomo e di portarlo dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità, dalla contemplazione terrificante dell'inferno a quella beatificante del paradiso. L'afferma il sommo vate nell'epistola a Can Grande della Scala: « Il fine del tutto e della parte potrebbe essere molteplice, ossia vicino e remoto; ma, tralasciando un minuzioso esame, si può dire brevemente che il fine del tutto e della parte è togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato di felicità » (Ep. XIII, 15).

Per tutto ciò la Divina Commedia si presenta come un itinerarium mentis in Deum, dalle tenebre della inesorabile riprovazione, alle lacrime della espiazione purificatrice, e, di gradino in gradino, da chiarezza in chiarezza, da fiammante a più fiammante amore, sino alla Fonte della luce, dell'amore, della dolcezza eterna:

« Luce intellettual, piena d'amore, — Amor di vero ben, pien di letizia, — letizia che trascende ogni dolzore » (Par. XXX, 40-42).

E i motivi di poesia sono dati come insegnamenti e moniti per la nostra ascesa a Dio. La natura e la soprannatura, la verità e l'errore, il peccato e la grazia, il bene e il male, le opere degli uomini e gli effetti delle loro azioni sono visti, considerati, valutati coram Deo, nella prospettiva dell'Eternità. E tale ascesa, nel suo anelito di toccare ciò che è più intimo e più alto, diventa epos di vita interiore, epos di grazia celeste, epos di esperienza mistica, di santità nelle modellature più varie; diventa teologia della spiritualità e del cuore.

Dalle ime bassure alla visione della Santissima Trinità

I Santi e la Regina dei Santi

Dagli abissi delle colpe punite, attraverso regni sereni, dove gli umani spiriti si purgano, verso le ardue vette della perfezione, alle quali conducono i cammini molteplici di santità e di splendore quelli che di questa santità multiforme furono modelli — quali panegirici sono tessuti a San Francesco, e San Domenico, a San Pier Damiano, a San Benedetto da Norcia, a San Romualdo, a San Bernardo! — tutto sale verso un vertice. I cento canti, per chi comprende il loro salutare significato, sono come cento gradini di una scala, come quella veduta in sogno da Giacobbe, che dalle ime bassure salgono alla luce della Trinità. Antecedente al supremo gradino di essa, invocata da San Bernardo ad essere graziosa avvocata in pro del pellegrino nuovo e inesperto, affinché sia soddisfatto il suo ultimo desiderio, è la Vergine Madre Maria.

Effettivamente per il poeta fiorentino Maria, « il nome del bel fior ch'io sempre invoco e mane e sera » (Par. XXIII, 85-89), colei « che là su vince, come qua giù vinse » (ibid., 93), è dispensiera delle grazie, è la fulgida porta del Cielo che, colmando le distanze fra Cristo e le creature, permette l'accesso a Cristo e alla beatitudine dell'eterno Vero:

« Or questi, che da l'infima lacuna - de l'universo infin qui ha vedute - le vite spiritali ad una ad una, - supplica a te, per grazia, di virtute - tanto, che possa con Ii occhi levarsi - più alto verso l'ultima salute. - E io, che mai per mio veder non arsi - più ch'i' fo per lo suo, tutti miei preghi - ti porgo, e prego che non siano scarsi, - perché tu ogni nube li disleghi - di sua mortalità co' preghi tuoi,- sì che 'l sommo piacer li si dispieghi » (Par. XXXIII, 22-23).

Simboleggiato il genere umano in cerca della pace

Il protagonista dell'azione, pur essendo il poeta stesso, simboleggia el genere umano, e induce questo, attraverso il velo dell'allegoria continua, a riconoscere gli errori, a riprendere il dritto cammino, a illuminarsi, a purificarsi e ad aderire al Sommo Vero e al Sommo Bene.

La legge divina è data agli uomini perché, adempiendola, conseguano la felicità temporale e quella eterna, a cui aspirano, nella sequela del vero bene che ispira il retto amore, e nella fuga del male, che è sorgente di amore storto, cupidigia e perversità. « E' chiaro che il genere umano trova nella pace, cioè nella tranquillità della pace, le migliori condizioni per compiere la sua opera, che è quasi divina, secondo la frase famosa: “l’hai fatto di poco inferiore agli angeli" » (De Monarchia, I, IV. 2).

Questa pace dei singoli, delle famiglie, delle nazioni, del consorzio umano, pace interna ed esterna, pace individuale e pubblica, tranquillità dell'ordine, è turbata e scossa, perché sono conculcate la pietà e la giustizia. E a restaurare l'ordine e la salvezza sono chiamate a operare in armonia la fede e la ragione, Beatrice e Virgilio, la Croce e l’Aquila, la Chiesa e l'Impero, la ridesta coscienza degli umani destini, in una predicazione universale di un annunzio oscuro, ma certo di nuova età storica. Cielo e terra armonizzano nel far risuonare questo Evangelio di pace.

Poema della pace è la Divina Commedia: lugubre canto della pace per sempre perduta è l'Inferno, dolce canto della pace sperata è il Purgatorio, trionfale epinicio di pace eternamente e pienamente posseduta è il Paradiso.

Tempio di sapienza e d’amore

Ma non meno che della pace la Divina Commedia è tempio di sapienza e d'amore, di una sapienza spirante amore e di un amore flagrante di sapienza. Chi può negare che i versi del divino poeta spirano un amore agli uomini, che rende energico ed efficace l'invito ad essere in ogni condizione di vita migliori? a orientarsi verso i destini loro assegnati dalla Provvidenza divina?

E' il poema del miglioramento sociale nella conquista di una libertà, che è franchigia dall'asservimento del male, e che ci induce a trovare e ad amare Dio nella valorizzazione di tutti i suoi doni, nella storia e nella vita, in tutte le sue manifestazioni professando un umanesimo, le cui qualità riteniamo bene chiarire.

Umanesimo di Dante

L'umanesimo dì Dante mette capo a quello di San Tommaso d’Aquino. Esso è sotto il segno dell'ottimismo basato sui principi, che la grazia non distrugge la natura, ma la risana e la corona, e che persona est nomen dignitatis (cfr. Summa Theologica, I, q. i, a. 8 ad 2; I-II, q 109, a. 8; I, q. 29, a. 3 ad 2), ed è ben opposto a una corrente ascetico-mistica che sembrava additare per tutti come ideale il contemptus mundi. In Dante tutti i valori umani (intellettuali, morali, affettivi, culturali, civili) sono riconosciuti, esaltati; e ciò che è ben importante rilevare è che questo apprezzamento e onore avviene mentre egli si sprofonda nel divino, quando la contemplazione avrebbe potuto vanificare gli elementi terrestri. Anzi la sua umanità si definisce ancor più piena e si perfeziona nel vortice del divino amore. Anche in seno alla rutilante immensità dei cieli, egli si sente dominare dall'ansia, dal messaggio di verità e di bontà, che attende da lui il punto lontano della nostra terra infelice, l'aiuola che ci fa tanto feroci (Par. XX, 151).

Quanto alla civiltà classica, Dante è d'avviso che essa fosse come preparazione provvida al Cristianesimo e che spesso di questo offrisse preannunzi e allegorie, ben diversamente che nel Rinascimento o almeno in una corrente che lo distingue, dove i valori umani sono considerati indipendentemente da Dio e l'umanesimo si fa paganeggiante e pelagiano.

Visione politica

Ci sia lecito qui lievemente e di passaggio toccare la sua dottrina politica.

I due sommi poteri (Chiesa e Impero) sono destinati da Dio a condurre gli uomini alla felicità, l'uno a quella celeste, l'altro a quella terrestre, e come queste finalità sono distinte, per quanto subordinate, così esse nel loro ambito sono indipendenti, ed evitata la confusione del sacro col profano è affermata tuttavia la mutua collaborazione, che in rebus fidei et morum è subordinazione dell'Imperatore al Sommo Pontefice; e tutti e due sono a servizio della res publica christiana. La Chiesa, poi, libera dal fardello dell'inutile fasto e dalle cure di affari temporali, tutta deve essere impegnata nella lotta per seminare la verità e per fruttificarla:

« Non si pensa quanto sangue costa - seminarla nel mondo, e quanto piace - chi umilmente con essa s'accosta » (Par. XXIX, 91-93).

Ciò pertanto non è certo da equiparare al radicale separatismo moderno, predicato da Marsilio Patavino.

Il compito invero assegnato all'imperatore più che di altro genere appare morale, destinato a far trionfare la giustizia e a debellare quello che le è di ostacolo, la cupidigia, causa di disordine e di guerre. Donde la necessità di una monarchia universale. Questa — concepita in termini medioevali — esige la presenza di una potestà sopranazionale, che faccia vigere a custodia della pace e della concordia delle genti una unica legge. Presagio questo del divino poeta, non così utopistico, come ad alcuni potrebbe sembrare, trovando ai tempi nostri un riflesso nell'attuazione pratica nella Società delle Nazioni con raggio e beneficio che tende ad estendersi alle genti del mondo intero.

Poeta dei teologi, teologo dei poeti

Non possiamo esimerCi anche dall'accennare ai rapporti fra la poesia e la preghiera, fra la poesia e le verità religiose, per mettere poi in maggior luce come tali rapporti si verificano nella Divina Commedia, e per via di scorci chiarire la natura dell'arte poetica e specificamente quella di Dante Alighieri, anche perché, per diversi motivi, nell'attuale stato di cose, di ciò si ha bisogno per l'auspicato rifiorire della poesia, in particolare di quella religiosa.

Giovanni di Virgilio aveva preparato per il sepolcro di Dante un epitaffio che diceva:

« Dante teologo di nessuna dottrina ignaro - che filosofia scaldi sul suo nobile seno ».

Da quest'ultimo è stato precipuamente onorato col nome di teologo, mentre nella estimazione dei secoli, con consenso che non tardò a farsi unanime, è prevalso a suo riguardo l'appellativo di sommo poeta; e divina è stata chiamata la sua Commedia.

Giusto il primo titolo e giusto il secondo. Ma non è da ritenerlo poeta, sebbene teologo, ma piuttosto da proclamarlo signore dell'altissimo canto, anche in quanto teologo dalla mente sublime.

La nobiltà, la grandezza, i pregi nobilissimi della sua poesia in lui sono così evidenti, che non necessita ricorrere a complicate argomentazioni per la loro dimostrazione: la eterea cima montana, che resiste per tanta fuga di tempo alla erosione delle acque, non ha bisogno, perché sia detta grande, di prolungati ragionamenti: è sufficiente per tutto ciò rivolgerle un’occhiata.

Mistagogo nel santuario dell’arte

Piuttosto come a Dante fu guida Virgilio, così per altri, più numerosi che sia possibile, può essere egli un altro Virgilio, mistagogo nel santuario dell'arte e particolarmente dell'arte poetica. E questo è auspicabile tanto ai tempi nostri, quando il regresso dello spirito si accompagna troppo spesso col progresso economico e tecnico, e l’arte si impoverisce, riducendosi troppe volte a piccoli saggi, a soggettivismo - Ci sia lecito definirlo - manicheo, sprezzante della natura, a cinico riso, e a descrizione o esaltazione del vizio, e, nella poesia, ammette soltanto o di gran lunga preferisce il lirismo, con limitazioni e strettezze non necessarie e sterili.

Essenza della poesia

Ecco quelli che traendo corollari dal particolare sistema filosofico, da loro inventato o abbracciato, negano la distinzione tra poesia e prosa, e altri, che pur sostenendo tale distinzione, riconoscono alla poesia il carattere lirico, cioè emotivo, esigendo da essa il linguaggio del sentimento e dell'intuizione, mentre alla prosa si attribuisce il carattere logico e il pensiero definito, scientifico, oggettivo. E' ben vero che la poesia può trovare alimento nell'interiorità del soggetto stesso, ma quando rinuncia alla facoltà noetica o la sprezza, non giunge alla logica, alla chiarezza e alla concretezza, e nasce debole, oscura, sostenuta da parole a effetto, da emozioni che si spengono in vuoto languore.

La costruzione poetica non offre motivo di essere svalutata dalla grandezza delle sue proporzioni. Nell'antichità le forme sue più apprezzate erano il poema e la tragedia, alla prima delle quali Platone dava la palma, e alla seconda Aristotele, ritenendo questa l'apogeo dei capolavori (Platone, Leg. II, 658 d) e sg.; Aristotele, Poetica, 1461 b) e sg.).

Psicagogia, ispirazione, ritmo

Il criterio per determinare il grado di bellezza e di perfezione era chiesto massimamente alla psicagogia, ossia alla potenza che si era proposto l'artista di condurre con efficacia ed estensione conveniente là dove egli voleva, cosa questa che anche Orazio rileva come postulato imprescindibile:

« Non basta che i componimenti poetici siano belli; occorre che essi siano piacevoli o che trascinino l'animo dell'uditore dovunque vorranno » (Orazio, Ars poetica, 99-100; cfr. Epist. II, I, 212-214).

Ora tutto ciò si ottiene col linguaggio proprio della poesia e con quello, che, suo arcano, forse non sarà mai pienamente chiarito, l'ispirazione. Non è che questa bandisca la ragione, ma costituisce invece un altro modo di conoscere le cose e d'impossessarsi di esse e di raccogliere rapporti che quella non vede. Ha bisogno l'arte della ragione nella tumultuosa attività precedente lo scintillio della ispirazione, che tutto poi illumina, placa e semplifica, e per il lavoro di attuazione che segue, da farsi con abilità e talento, per comunicare il proprio stato d'animo, non solo suscitando idee, fantasmi della immaginazione, e affetti, ma anche, con perfetta fusione dei diversi elementi: ché « principio e fonte del bello scrivere è l'essere saggio » (Orazio, Ars poetica, 309).

A ciò si aggiunga che è necessario produrre un fluido, come una corrente magnetica per mezzo della posizione e dell'accorta congiunzione delle parole, dell'armonia, del ritmo: « Invero, potrai dare l'onore di questo nome (ossia di poeta) soltanto a colui che ha a ciò disposizione d'ingegno, mente più aperta alle ispirazioni divine e bocca atta ad esprimere grandi cose » (idem, Satir. I, IV, 43-44).

Eccellenza di forma e di pensiero nella Commedia

Ora in Dante tutto ciò che anima e solleva a meravigliosa altezza la sua opera, in un abbraccio del mare dell'essere, è l'ignea forza, è il veemente soffio della ispirazione: « I' mi son un, che quando - Amor mi ispira, noto, e a quel modo - ch'e' ditta dentro vo significando » (Purg., XXIV, 52-54).

Tutti i generi vi si uniscono: l'epico, il lirico, il didascalico, il drammatico, e di quest'ultimo sia quello di carattere, sia quello d'azione, in una esauribile molteplicità di combinazioni, di variazioni, nella coerenza di una splendida architettonica unità. E si dispiega ivi la gamma di tutti i toni e sentimenti, gentili e bellicosi, mesti e giulivi, sprezzanti e ammirativi, esprimenti ira, terrore, timore, amore, preghiera, adorazione, mellifluo riso, estasi. Con tocchi tutti suoi, il sommo poeta canta le cose più complesse ed elevate della vita, i misteri di Dio e i più alti pensieri degli uomini. Invero, miracolo di natura riesce quella fonte, che spande di parlar sì largo fiume, quando si pensa che si serve della lingua italiana, allora pargoletta e ai primi tentativi della espressione artistica. Essa « pane orzato.. e sole nuovo » (Conv. I, 13), al suo ingegno « trasmutabile... per tutte guise » (Parad. V, 99) si presta maneggevole strumento per esprimere, ora con dignità aristocratica, ora con certa popolare rozzezza, ora con forza, ora con delicatezza, con molteplice timbro e colorito musicale quanto passa per il suo cuore e vagheggia la sua mente, crucci ed esaltazioni, rimbrotti e lodi, improperi dei dannati e preghiere di Santi, visioni, sogni, presagi, disegni, acutezze di pensieri filosofici e le vette della teologia.

Rapporti fra teologia e poesia

Questo accenno alla teologia in Dante apre un problema che la riguarda. Alcuni critici asseverarono un carattere non poetico della Divina Commedia, quando e dove è impregnata di teologia; e altri invece sono della contraria opinione, vedendo là essa spiccare e rifulgere di meridiana luce, tutta sua. Non possiamo dissentire dal giudizio di questi ultimi per ragioni generali e particolari.

Chi può negare che il sentimento religioso, la verità religiosa, l'anelito del finito verso l'Infinito siano stati e sempre siano sorgente d'acqua, che alta vena preme di poesia? Non è forse questa la sua forma più alta e più pura? Quando col suo linguaggio che le appartiene — per cui preferisce al parlare il canto, all'argomentazione il dipingere, alla perorazione lo scolpire — la poesia esprime l'esperienza mistica, la psicologia della grazia, l'estasi, e si eleva alla Suprema Bellezza, al Bene e al Vero che trascende ogni pensiero, all'ineffabile, alla « eterna luce che, vista, sola e sempre amore accende » (Paradiso V, 8-9), allora essa diventa un dono magnifico della bontà di Dio, diventa un riflesso della Sua gloria. Appare

«...giorno a giorno - essere aggiunto, come quei che puote - avesse il ciel d'un altro sole adorno » (ibid. I, 61-63).

Preghiera e poesia

Del resto i contemplativi, cioè gli uomini religiosi per eccellenza, più di tutti gli altri sono candidati alla Poesia, alla grande Poesia, e splendidi modelli di essa sono da tutti considerati i vaticini dei profeti ed i salmi davidici.

In realtà fra i mistici e i veri poeti e in generale fra gli artefici delle arti belle, delle quali la poesia è animatrice e madre, c'è una segreta parentela. Il dono poetico corrispondente nell'ordine naturale a quello che nell'ordine soprannaturale è il dono profetico e mistico; nella sua esplicazione c'è l'analogo processo psicologico e tutti e due cercano la dimora più nascosta dell'anima, la punta estrema dello spirito, il centro del cuore, dove gli uni sentono la presenza di Dio e gli altri, anche non pienamente compresa, ma sospettata e intuita, la presenza di un dono dell'« Autore della bellezza » (Sap. 13, 3. Cfr. H. Brémond, Prière et poesie, Paris 1926).

Si esorta a coltivare la poesia religiosa: modello Dante Alighieri

E qui cogliamo l'occasione di esortare a coltivare la poesia religiosa, sia quella corale, disposta al canto che raccoglie in sé i sentimenti della moltitudine nella interpretazione delle vere voci della natura, nella celebrazione delle feste e dei grandi avvenimenti lieti e mesti che passano, sia quella che è l'espressione dell'anima a colloquio con la Realtà divina, che la fa vivere e la trascende. L'arte della parola per i credenti, i quali nel loro cuore per la fede hanno maestro e pedagogo il Verbo della vita, anche se semplice e umile, è loro. Bisogna pertanto che essi la coltivino e in questo alla scuola di Dante troveranno un modello insuperabile anche per le ragioni che esponiamo.

In lui fra l'elemento dottrinale e quello poetico, a esaminare la loro congiunzione, vi si rileva l'autentica validità della loro alleanza. L'uno all'altro non è giustapposto, sebbene l'uno sia subordinato all'altro, e tutt'e due formano un organismo vivo e armonioso, come nel corpo umano la struttura delle ossa e la carne, cosicché se è tolto l'uno, anche l'altro cade, e la bellezza si sostiene dalla compagine del tutto.

La bellezza ancella di verità e di bontà

La teologia e la filosofia hanno con la bellezza un altro rapporto consistente in questo: che prestando la bellezza alla dottrina la sua veste e il suo ornamento, con la dolcezza del canto e la visibilità dell'arte figurativa e plastica, apre la strada perché i suoi preziosi insegnamenti siano comunicati a molti. Le alte disquisizioni, i sottili ragionamenti sono inaccessibili agli umili, che sono moltitudine, essi pure famelici del pane della verità; senonché anche questi avvertono, sentono e apprezzano l'influsso della bellezza, e più facilmente per questo veicolo la verità loro brilla e li nutre. E' quanto intese e fece il signore dell'altissimo canto, a cui la bellezza divenne ancella di bontà e di verità, e la bontà materia di bellezza.

Onorate l'altissimo poeta

Ma è ben tempo di porre fine alla impari celebrazione delle lodi di Dante Alighieri per concludere con la commossa esortazione: « Onorate l'altissimo poeta! ». Abbiano tutti per lui un culto, perché egli a tutti appartiene, ornamento del nome cattolico, universale vate ed educatore del genere umano; con più diligente e fermo impegno lo abbiano quelli che per religione, per carità di patria, per le vicende della sua vita, per affinità di studi, si sentono a lui più vicini. Quelli poi di più pronto ingegno non solo rivolgano con mano applicata giorno e notte l'esemplare della Divina Commedia, capolavoro sublime, e approfondiscano sempre meglio e scoprano quello che in essa ancora è inesplorato e oscuro. Cerchino tutti di leggerla tutta, non precipitevoli e frettolosi, ma con mente penetrante e con meditazione amorosa. Che se ciò per motivi di varia natura a molti non riesca possibile, che difficilmente si trovi qualcuno che ignori il complesso del suo contenuto, i suoi ideali, le sue parti o almeno i suoi versi più famosi.

Noi invitiamo, infine, gli uomini della nostra età a integrare e a illuminare la loro coltura con l'incontro di così alto spirito, ora che la ricorrenza del settimo centenario della nascita di Dante ce lo riconduce come astro fulgidissimo, a cui si volga lo sguardo e si chieda l'orientazione di buon cammino, spesso impedito da selva oscura, verso quello che egli ci indica il suo « dilettoso monte - ch'è principio e cagion di tutta gloria » (Inferno, I, 77-78).

Noi, da parte Nostra, per tributargli onore nella presente solenne celebrazione, desiderosi che di questa si perenni la memoria, per una iniziativa giovevole al suo culto, costituiamo, come sopra dicemmo, Motu proprio la Cattedra di Studi danteschi nella Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano. Ed affidiamo l'esecuzione fedele di quanto nel Motu proprio ordiniamo, con autorità Nostra, al Venerabile Fratello Carlo Colombo, Vescovo titolare di Vittoriana, Presidente dell'Istituto « Giuseppe Toniolo » in Milano, e quindi, per suo tramite, al Magnifico Rettore dell'Università Cattolica stessa, il diletto figlio Professore Ezio Franceschini.

Quanto poi con questa Lettera Apostolica, data Motu proprio, stabiliamo, vogliamo che sempre sia valido e stabile, senza che qualsiasi cosa contraria possa essere addotta ad ostacolo.

Dato a Roma, presso San Pietro, nel giorno 7 Dicembre 1965, festività di S. Ambrogio Vescovo, terzo anno del Nostro Pontificato.

 

Paolo VI


*da L'Osservatore Romano, 31 dicembre 1965, pp. 2-3.



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