Index   Back Top Print

[ ES  - IT ]

SALUTO DI PAOLO VI
AL NUOVO BEATO VINCENZO ROMANO
 FULGIDO ESEMPIO DI SACERDOTE E PARROCO

Domenica, 17 novembre 1963

    

Signor Cardinale, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, 

Salutiamo il nuovo Beato Don Vincenzo Romano, e rallegriamoci nel Signore, che ci lascia contemplare come cittadino del cielo questo suo fedele ed esemplare seguace. 

Abbiamo motivi particolari non pochi per essere lieti di questa glorificazione, oltre quello principale dell’onore che è così tributato al Signore e che ridonda sulla Chiesa intera, la quale vede l’albo dei suoi figli vittoriosi arricchirsi del nome d’un nuovo eletto. 

Non possiamo tacere che uno di questi motivi è costituito dal fatto che questo Beato Romano era Napoletano! Di Torre del Greco, a dir vero; cioè nato e vissuto nella rinomata e ridente cittadina distante da Napoli poco più d’una decina di chilometri, quanto basta per dare agli abitanti di Torre del Greco una loro distinta fisionomia morale e popolare, e perciò una ragione di legittimo vanto di ascrivere nella propria anagrafe, anzi nella propria storia, questo suo raro ed ormai celebre figlio, nato appunto, vissuto e morto a Torre del Greco; ma quanto basta altresì per riconoscere alla popolosa borgata ed a questo illustre suo cittadino l’onore di appartenere all’arcidiocesi di Napoli, alla sua circoscrizione civile, alla sua cultura, alla sua educazione, alla sua vita. 

Dobbiamo esprimere le Nostre felicitazioni al Signor Cardinale Arcivescovo di Napoli per questa beatificazione, dobbiamo estenderle al venerabile Clero ed ai fedeli tutti dell’arcidiocesi partenopea, ed a quelli della fertile e benedetta e famosa terra della Campania, perché la virtù riconosciuta in Vincenzo Romano non è solo strettamente a lui personale, ma è rappresentativa d’una spiritualità e d’un costume, che possiamo ben dire regionali. Questa considerazione del Beato nel quadro religioso e civile, in cui si svolse la sua vita, apre alla nostra mente varie questioni, sia generali che particolari, di grande interesse, alle quali risponderanno gli storici e gli agiografi, e alle quali appena accenniamo; quale sia, ad esempio, l’influsso dell’ambiente sulla personalità d’un santo, quanto questi riceva, assorba, modifichi ed esprima della mentalità popolare che lo circonda, e come perciò egli assurga a tipo caratteristico e nobile d’un’età e d’una popolazione. Che l’ambiente abbia enorme importanza nello svolgimento della nostra vita lo dice il fatto che grande parte della educazione consiste nel porre intorno all’alunno un complesso di circostanze e di fattori, che dovrebbero favorire lo sviluppo migliore dell’alunno stesso, come pure grande parte della disciplina ascetica consiste nella scelta e nella disposizione di condizioni ambientali utili alla formazione e all’esercizio della vita spirituale. Nel caso nostro l’ambiente è quello offerto dalla modesta e comune maniera di vivere d’una famiglia del popolo napoletano nella seconda metà del settecento e nei primi decenni dell’ottocento, perfezionato dall’educazione ecclesiastica di quel tempo e di quella città. Don Vincenzo Romano non è uscito da quell’area locale e morale; perciò la sua figura ne è tipica e rappresentativa.

E la ricerca dei coefficienti che qualificano tale figura ci fa facilmente scoprire delle visioni splendide e grandiose: Napoli è in grande forma a quell’epoca, il suo nome è europeo, e la sua vita religiosa è caratterizzata dalla presenza e dall’azione d’un’altra santa figura di primo ordine: Alfonso Maria de’ Liguori, che era nato quasi cinquant’anni prima di Vincenzo Romano, ma che gli fu contemporaneo per oltre trent’anni, nel periodo cioè in cui S. Alfonso irradiava i suoi insegnamenti di scrittore e di dottore, ed i suoi esempi di religioso e di Vescovo. È certo che il movimento di pensiero e di azione, a cui S. Alfonso dava origine in quegli anni e in quella regione, fece scuola anche per l’umile ed intelligente prete di Torre del Greco; e fu alta scuola, anche perché essa pure partecipe e fautrice del risveglio religioso e dell’ascetismo canonico del Clero napoletano di quegli anni. A chi obbiettasse che quegli anni e quelli del successivo periodo napoleonico non erano, sotto molti aspetti, favorevoli alla apparizione d’un fenomeno di santità ecclesiastica - basti pensare alle correnti gianseniste, alla politica anticlericale di Bernardo Tanucci, e ai bisogni di riforma morale e religiosa, di cui lo stesso S. Alfonso ci informa -, potremmo fare un’altra osservazione, ch’è proprio la lode migliore dei Santi rispetto all’ambiente, in cui si svolge la loro formazione e la loro attività; ed è quella che vede come il Santo, e nel nostro caso il Beato Vincenzo Romano, non solo personifica e porta a livello superiore quanto di bene l’ambiente possiede, ma reagisce a quanto di male o di misero l’ambiente gli offre e impone al costume corrente; perché egli sa risuscitare energie spirituali e morali dal fondo delle singole anime e dal cuore del popolo, che altri né supponeva esi-stessero né sapeva cavare. 

L’osservazione non è soltanto fonte di ammirazione per il servo di Dio, che si è francato dai vincoli delle consuetudini invalse, credute inespugnabili, ma dev’essere anche lezione per noi, quando c’insegna che ogni ambiente, con la grazia del Signore e con la buona volontà, può essere fertile di santità: con ciò che ha di buono aiuta e conforta, con ciò che ha di avverso provoca a militante fortezza l’anima grande. E cioè ci ammonisce a non sopravalutare le condizioni d’ambiente, quasi fossero per l’anima forte, libera e cristiana indispensabili e determinanti: alla virtù, al bene, se positive, alla mediocrità o al vizio, se negative; esse sono certamente coefficienti molto importanti e spesso praticamente influenti e prevalenti sulla condotta della gente comune, non però su quella dell’eroe della virtù, che le domina e le personifica, se buone, vi resiste e spesso le supera e le trasforma, se cattive. La santità cioè fiorisce, se Dio aiuta, dappertutto; ed ogni ambiente le può giovare, ogni condizione di vita le può essere propizia, quando l’incontro delle due volontà, la divina e l’umana, vi provocano la vittoriosa scintilla della carità (cfr. Rom. 8, 35). 

Ed è ciò che precisamente ammiriamo nel nuovo Beato: la sua è proprio una santità che scaturisce dal dialogo col suo ambiente: egli vi è nato, vi si è formato; egli lo assorbe, lo plasma in se stesso sul modello cristiano e sacerdotale, poi lo rieduca, lo evangelizza, lo santifica. Era infatti un prete, del paese, come ve ne erano tanti a quel tempo; un Sacerdote diocesano, ch’ebbe la fortuna di un’ottima educazione in Seminario, e che poi ritorna fra i suoi familiari e compaesani ad esercitare vari ministeri dapprima, poi l’ufficio di Parroco, per .oltre trent’anni, dal 1799 al 1831, anno della sua morte. Lo schema della sua vita sembra quello normale per un Sacerdote in cura d’anime. Dov’è l’aspetto straordinario proprio della santità?, dov’è l’aspetto esemplare che meriti la nostra imitazione e la nostra venerazione?

Per rispondere, dovremmo narrare la storia di questo buon curato e vedremmo quale sia il genere di perfezione proprio di chi si consacra alla vita pastorale; è il dono di sé per la salvezza degli altri. E poiché oggi tanto si parla di vita pastorale, vedremmo questo semplice prete di campagna venirci incontro, dalla terra del Vesuvio, per insegnarci qualche cosa di magnificamente attuale e universale. Che Vincenzo Romano, ad esempio, abbia prefisso a se stesso la massima di «fare bene il bene», indica quale esigenza di perfezione abbia dominato la sua vita. Vi sarebbe da parlare della sua vita interiore, della sua religione personale, del suo impegno allo studio, della sua austerità privata, del suo distacco dal denaro e dalle ambizioni onorifiche non ignote talvolta anche ai buoni sacerdoti, in una parola dello sforzo ascetico che domina tutto il corso dei suoi anni e che compenetra la continua proiezione di sé al servizio degli altri ed in gran parte ne risulta; si dovrebbe fare un accenno a certi bagliori mistici, che qua e là sfuggono dal segreto d’un’anima sempre tesa alle cose di Dio e sempre pronta ad esprimerne l’esperienza con gli accenti affettivi e sentimentali, propri del temperamento meridionale e della scuola alfonsiana. 

Ma ciò che ora attrae la Nostra attenzione è il suo comportamento pastorale, cioè l’esercizio del suo ministero esteriore a vantaggio del prossimo; ma non potremo trascurare due previe osservazioni: che questo ministero esteriore si alimenta di vita interiore, ne trae le sue radici, le sue energie, i suoi impulsi, i suoi conforti; non è un mestiere profano, non è l’affanno di Marta, non è la dissipazione che svuota l’attivista d’una sua profondità personale; è carità che arde di dentro e che si’ accende nell’intimità del colloquio devoto e della meditazione pensosa e poi trabocca. E perciò (seconda osservazione), questo stesso ministero esteriore, mentre attrae il sacerdote che vi ha dedicato la vita e diventa per lui un obbligo assillante, lo spaventa e lo opprime nello stesso tempo, e quasi lo respinge, per il senso opprimente di responsabilità che porta con sé e per le enormi difficoltà, che sempre rappresenta e che, appena avvertite, mettono in evidenza la sproporzione tra i doveri da compiere e le forze disponibili, immensi i primi, povere e vacillanti le seconde. È il tormento di chi si consacra alla cura d’anime. Viene opportuna la parola di S. Agostino: «Niente è in questa vita, e specialmente in questo tempo, più difficile, più faticoso, più pericoloso» (Ep. ad Valerium, 21; PL 35, 88). Il Beato Vincenzo Romano provò anche lui la paura d’un ministero così impegnativo e responsabile com’è quello del Parroco; avrebbe voluto sottrarsi a tanto onere, ed ebbe a dire di sé: «Avrei voluto piuttosto la morte, che aggravarmi di questo sì pericoloso peso della cura d’anime; questa carica non si può accettare né per onore, né per interesse, o per altro fine; ma soltanto per volontà di Dio». Riscontriamo così in Lui una somiglianza con il Santo Curato d’Ars, anch’egli oppresso interiormente dalla responsabilità dei doveri pastorali, fino a tentare di fuggire dalla sua parrocchia. Abbiamo nominato S. Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars: sarebbe interessante notare molti altri aspetti di somiglianza fra quel santo parroco e questo, legati entrambi a eguali doveri, e entrambi straordinariamente abili ad esercitarvi, sia pure in forme e misure differenti, virtù analoghe e a ricavarne meriti somiglianti. 

Troveremo così anche in Vincenzo Romano una grande profusione di parola di Dio; da quella sistematica, e non mai abbastanza raccomandabile, della catechesi, vera base della vita religiosa e profonda esigenza del tempo nostro, a quella esortativa e edificante (si dice che fosse perfino prolissa la predicazione del nostro Beato; ora forse anche la sua non lo sarebbe più!). Troveremo la premura antiveggente di far partecipare i fedeli alla celebrazione della S. Messa; un suo libretto dal titolo «la Messa pratica» ci dice come egli avesse l’intuito di quella necessità che l’assemblea dei fedeli preghi bene, preghi insieme e preghi coordinando pensieri e voci a quelli del Sacerdote celebrante, necessità la quale oggi è riconosciuta dalla dottrina della Chiesa e promossa dai movimenti liturgici. 

Troveremo una carità, che si espande fuori del puro esercizio del culto, e si interessa e si affatica per tutti i bisogni umani privi d’altro soccorso: il Parroco a nulla è estraneo, tutti conosce, tutti conforta, tutti ammonisce, tutti benefica. Anzi la sua carità da individuale si fa sociale, da spirituale anche professionale ed economica (per ritornare subito morale e religiosa), se ciò è richiesto da quel bene delle anime, che per un Parroco è «suprema lex». Il Beato Vincenzo ci dà, a questo riguardo, un bellissimo esempio, quasi precursore della carità sociale della Chiesa ai nostri giorni, organizzando ed assistendo i pescatori di corallo, che a Torre del Greco erano e sono tuttora numerosi, laboriosi e bisognosi.

Così che egli merita che noi lo consideriamo, come si suol dire, «d’attualità», come esempio di virtù di cui il nostro tempo ha manifesto bisogno. E lo avranno caro, come Protettore e come modello, i fedeli tutti, ma in modo particolare i Sacerdoti, quelli diocesani specialmente, per i quali l’obbligo della perfezione cristiana non è soste-nuto dalla professione religiosa, ma è reclamato sia dalla loro dignità, sia dal loro ministero, e, quando questo sia esercitato con pienezza di carità, mediante il ministero stesso quella perfezione diventa possibile e grande. Ai Parroci soprattutto siamo felici di additare un loro Fratello in cielo; ad essi va, anche in questa occasione, il Nostro particolare ed affettuoso pensiero: possa il Beato mostrare loro la grandezza della loro missione; e pensando in quali difficili e modeste condizioni tanto spesso si svolge il loro ministero, ricorderemo loro che «non sono gli orizzonti geografici ad allargare quelli dello spirito, ma la vastità degli orizzonti dell’anima a dare anche ad un luogo minuscolo le dimensioni dell’universo» (Garofalo, p. 36). E voglia questo nuovo Beato loro mostrare che e come un Sacerdote in cura d’anime dev’essere santo; voglia lui sostenere i loro disagi, compensare le loro privazioni, fortificare il loro spirito di sacrificio e di disinteresse, consolare le loro pene, premiare le loro fatiche! Vada a loro con i Nostri voti la Nostra Benedizione. 

Perché, Fratelli e Figli, è di Sacerdoti zelanti, è di Parroci santi che soprattutto abbisogna oggi la Chiesa: essa ne celebra uno nuovo in Paradiso, possa essa annoverarne una moltitudine nuova anche nel mondo presente!

                                                       



Copyright © Dicastero per la Comunicazione - Libreria Editrice Vaticana