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DISCORSO DI PAOLO VI
AI PARROCI E AI PREDICATORI QUARESIMALISTI DI ROMA

Lunedì, 17 febbraio 1969

 

Venerati Confratelli,

Questo annuale incontro con i Predicatori della prossima Quaresima e con i Nostri Sacerdoti di Roma, con i Parroci e con i Coadiutori specialmente impegnati nel ministero pastorale, con gli Ecclesiastici del Vicariato della Nostra Diocesi e con quanti del Clero diocesano e delle Famiglie religiose vi dedicano il loro servizio spirituale, e con una rappresentanza dei Nostri Seminaristi è molto prezioso per Noi. Vi vediamo qui col Nostro caro e venerato Cardinale Vicario, a cui siamo obbligatissimi per la cura d’anime ch’egli presta, con tanta saggezza e tanta dedizione, a questa Nostra amatissima Urbe; vi vediamo numerosi ed uniti; vi vediamo attenti e desiderosi d’ascoltare una Nostra parola; vi vediamo religiosamente compresi della carità, che in questo momento ci unisce in uno stesso amore a Dio, a Cristo, alla Chiesa, e in una stessa anelante preghiera per l’avvento del regno dei cieli e per la nostra comune salvezza. Fissiamo nei nostri animi il momento felice. Possiamo vedervi riflessa la splendida parola della primitiva comunità cristiana, la quale era «un cuore solo e un’anima sola» (Act. 4, 32). Riviviamo un istante questo prodigio di carità. Vorremmo che qui foste tutti: e tutti vi consideriamo presenti, cari Sacerdoti Romani, anche se molti, trattenuti dagli impegni del vostro ministero, non lo siete fisicamente. Tutti vi vogliamo abbracciare, tutti ringraziare, tutti confortare, tutti benedire. È questa per Noi un’ora di pienezza spirituale; il Nostro ufficio apostolico vorrebbe arricchirla di quella misteriosa presenza, che il Signore ha promesso a coloro che sono congregati nel suo nome (cfr. Matth. 18, 20); vorrebbe prolungarla in santa conversazione, come Paolo a Troade (cfr. Act. 20, 7): e avremmo tante cose da dire e forse tante da voi da ascoltare. Ma il semplice fatto di questo incontro supplisce il discorso, che, invece d’essere lungo e profondo, è semplice e breve. Familiare, anzi; ed anche quest’anno, piuttosto che riguardare i grandi temi propri della predicazione quaresimale, si ferma sopra qualche aspetto della nostra vita ecclesiastica, oggetto ora di molte e gravi discussioni. Accenniamo appena. Del resto, questi problemi sono presenti ed agitati negli animi di tutti.

IL SACERDOTE NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA

Dobbiamo innanzi tutto ricordare alcune idee dinamiche, che percorrono oggi tutta la Chiesa, e che specialmente fra gli ecclesiastici suscitano non poco turbamento. La prima di queste idee riguarda la figura del prete. La si considera quasi sempre esteriormente, nella sua posizione sociologica, nel quadro della società contemporanea, la quale, come ognuno sa, è tutta in movimento, tutta in trasformazione. Il prete, rimasto al suo posto, s’è visto abbandonato dalla sua tradizionale comunità; il vuoto s’è fatto intorno a lui, in molti luoghi; in altri la clientela pastorale si è cambiata; difficile avvicinarla, difficile capirla, difficile interessarla alle cose religiose, difficile ricomporla in una comunità affiatata, fedele, orante. Il prete, allora si è chiesto, che ci sta a fare in un mondo così diverso da quello ch’egli una volta assisteva? chi lo ascolta? e come può egli farsi ascoltare? Egli si è sentito un fenomeno sociale strano, anacronistico, impotente, inutile, perfino ridicolo. Ed ecco allora l’idea nuova e dinamica: bisogna fare qualche cosa, bisogna osare tutto per riavvicinarsi al popolo, per comprenderlo, per evangelizzarlo. L’idea, per sé, è ottima; e noi l’abbiamo vista germinare dalla carità del cuore desolato del prete, che si è sentito escluso dal mondo storico sociale ed umano, in cui egli doveva trovarsi personaggio centrale, maestro e pastore; ed in cui invece è diventato forestiero, solitario, superfluo e deriso. La incongruenza e la sofferenza di questa sorte si sono fatte intollerabili. Il sacerdote ha cercato ispirazione ed energia nella profondità e nell’essenza della sua vocazione. Bisogna muoversi, ha detto, e riprendere la «missione D; e talvolta così lo ha detto a scapito anche della celebrazione del culto divino e della normale amministrazione dei sacramenti.

Ottima, diciamo, l’idea e segno d’una altissima coscienza sacerdotale. Il Sacerdote non è per sé, è per gli altri: il Sacerdote deve lui rincorrere gli uomini per farne dei fedeli, e non solo aspettare che gli uomini vengano a lui; se la sua chiesa s’è fatta vuota, egli dovrà uscire «per le piazze e i vicoli della città» in cerca della povera gente, e poi ancora «per le vie e lungo le siepi», e spingere invitati raccogliticci ad entrare (cfr. Luc. 14, 21-23). Questa urgenza apostolica preme sui cuori di tanti Sacerdoti, le cui chiese sono diventate deserte. E quand’è così, come non ammirarli? come non sostenerli?

PERFEZIONARE LE FORME TRADIZIONALI DI APOSTOLATO

Ma facciamo attenzione, proprio in omaggio del carattere sperimentale e positivo dell’apostolato. Primo: non è sempre così. Vi sono tuttora comunità di fedeli straripanti di numero e desiderose di regolare osservanza: perché lasciarle? perché cambiare per loro il metodo del ministero, quando questo è ancora autentico, valido e magnificamente fecondo? Non faremmo torto alla fedeltà di tanti buoni cristiani per tentare avventure d’esito incerto? E, secondo, quando basta aprire una nuova chiesa e accogliere con amorosa premura la gente che vi accorre spontanea ed avida di parola divina e di grazia sacramentale, perché escogitare forme nuove e strane d’apostolato di dubbia riuscita e forse di precaria durata? Non conviene forse perfezionare quelle tradizionali, e farle rifiorire, come il Concilio c’insegna, di realismo pastorale di nuova bellezza e di nuova efficacia, prima di tentarne altre, spesso arbitrarie e di non sicuro risultato, o ristretto a gruppi particolari e staccati dalla comunione della plebe fedele? Oh! noi non dimenticheremo la parola di Gesù, che ci raccomanda di lasciare le novantanove pecorelle che sono al sicuro per andare in cerca dell’unica smarrita (cfr. Luc. 15, 4); e ciò specialmente se la proporzione, come oggi capita in certe situazioni, fosse contraria, quella cioè d’una sola pecorella al sicuro, mentre novantanove fossero quelle disperse: ma sempre il criterio della unità e della completezza del nostro gregge, il criterio dell’amore pastorale e della responsabilità nostra verso le anime e del loro inestimabile valore ci sarà di guida.

Bisogna fare attenzione. Il bisogno, anzi il dovere, della missione efficace e inserita nella realtà della vita sociale può produrre altri inconvenienti, come quello di svalutare il ministero sacramentale e liturgico, quasi fosse di freno e d’intralcio a quello dell’evangelizzazione diretta del mondo moderno: ovvero quello, oggi piuttosto diffuso, di voler fare del prete un uomo come qualsiasi altro, nell’abito, nella professione profana, nella frequenza agli spettacoli, nell’esperienza mondana, nell’impegno sociale e politico, nella formazione d’una famiglia propria con l’abdicazione al sacro celibato. Si parla di volere così integrare il Sacerdote nella società. È così che dev’essere concepito il significato della magistrale parola di Gesù, che ci vuole nel mondo, ma non del mondo? non ha Egli chiamato ed eletto i suoi discepoli, quelli che dovevano estendere e continuare l’annuncio del regno di Dio, distinguendoli, anzi separandoli dal modo comune di vivere, e chiedendo a loro di lasciare ogni cosa per seguire Lui solo? Tutto il Vangelo parla di questa qualificazione, di questa «specializzazione» dei discepoli che dovevano poi fungere da apostoli. Gesù li ha staccati, non senza loro radicale sacrificio, dalle loro occupazioni ordinarie, dai loro interessi legittimi e normali, dalla loro assimilazione all’ambiente sociale, dai loro affetti sacrosanti; e li ha voluti a Sé dedicati, con dono completo, con impegno senza ritorno, puntando, si, sulla loro libera e spontanea risposta, ma preventivando una loro totale rinuncia, un’immolazione eroica. Riascoltiamo l’inventario delle nostre spogliazioni dalle labbra stesse di Gesù: «Omnis, qui reliquerit domum, vel fratres aut sorores, aut patrem aut matrem, aut uxorem, aut filios, aut agros propter nomen meum . .» (Mt. 19, 29). E i discepoli avevano coscienza di questa loro personale e paradossale condizione; Pietro che parla: «Ecce nos reliquimus omnia, et secuti sumus Te» (ib. 27). Il discepolo, l’apostolo, il Sacerdote, l’autentico ministro del Vangelo può essere un uomo socialmente come gli altri uomini? Povero sì, come gli altri, fratello sì, agli altri; servitore sì, degli altri; vittima sì, per gli altri; ma nello stesso tempo dotato d’una funzione altissima e specialissima: «Vos estis sal terrae . . . Vos estis lux mundi»! Ed è chiaro, se abbiamo la nozione della composizione organica del corpo ecclesiale; S. Paolo non potrebbe al riguardo essere più esplicito: «Corpus non est unum membrum, sed multa . . . Quod si essent omnia unum membrum, ubi corpus? Nunc autem multa quidem membra unum autem corpus . . .» (1 Cor. 12, 14-21 ss.). La diversità delle funzioni è principio costituzionale nella Chiesa di Dio; ed essa riguarda in primo luogo il sacerdozio ministeriale: vediamo di non perderla questa specifica funzione per un malinteso proposito di assimilazione, di «democraticizzazione», come oggi si dice, nella società ambientale: «Se il sale diventa insipido, con cosa gli si renderà il suo sapore? Non è più buono ad altro che ad essere buttato via e calpestato dalla gente» (Mt. 5, 13). Sono parole del Signore, le quali devono fare riflettere al discernimento necessario nell’applicazione della formola ricordata: essere nel mondo, ma non del mondo. La mancanza di questo discernimento, del quale l’educazione ecclesiastica, la tradizione ascetica, il diritto canonico ci hanno tanto parlato, può proprio conseguire l’effetto contrario a quello che un suo incauto abbandono ci aveva fatto sperare: l’efficacia, il rinnovamento, la modernità. Può infatti essere così annullata l’efficacia della presenza e dell’azione sacerdotale nel mondo; l’efficacia che proprio si voleva ottenere quando si reagiva imprudentemente alla separazione del sacerdote dal resto della società. Annullata: nella stima e nella fiducia del popolo, e dalla pratica esigenza di dedicare ad occupazioni profane e ad affezioni umane: tempo, cuore, libertà, superiorità di spirito (cfr. 1 Cor. 2, 15), che solo il ministero sacerdotale voleva per sé confiscate.

PROPOSITI GENEROSI ED ERRONEE SUGGESTIONI

Ripetiamo, fratelli venerati e carissimi: bisogna fare attenzione. Questo desiderio d’inserire il sacerdote nel complesso sociale, in cui si svolge la sua vita e il suo ministero è buono, ma da proposito generoso di uscire dal guscio d’una condizione cristallizzata e privilegiata, può tradursi in una suggestione erronea gravissima, la quale può paralizzare la vocazione sacerdotale in ciò che ha di più intimo, di più carismatico, di più fecondo; e può demolire di colpo l’edificio della funzionalità pastorale. Come anche può esporre Sacerdoti buoni, giovani specialmente, agli influssi delle correnti più discutibili e più pericolose di mentalità estranee di moda; li può rendere perciò vulnerabili dall’esterno ed esporli all’accettazione supina e incontrollata delle idee altrui. Il gregarismo ideologico e pratico è diventato contagioso. In una seria relazione, ad esempio, sui fatti del maggio scorso nell’ambiente universitario francese si leggeva: «On a signalé aussi l’imprégnation de la mentalité maoïste chez certains aumôniers d’étudiants» .

L'AUTORITÀ NELLA CHIESA

Bisogna fare attenzione. Un’altra idea dinamica, anche questa lodevole in radice, ma spesso intemperante nella sua formulazione ed esplosiva nella sua problematica applicazione è quella delle così dette «strutture». Non si sa bene quale significato si attribuisca a questo termine nel linguaggio ecclesiastico, specialmente quando si vuole avere qualche dovuto riguardo all’opera di Cristo, alla Chiesa qual è, nel suo disegno costituzionale, nel suo patrimonio dottrinale, nella sua elaborazione tradizionale, strumento e sacramento della salvezza. Ma una formula prevale: bisogna cambiare le strutture. È possibile questo? è lecito? è utile? Pare a Noi che talvolta il sogno irreale d’una Chiesa invisibile, o la folle speranza di poter eliminare le difficoltà e la materialità della Chiesa-istituzione, per conservare un cristianesimo puro, di vaga e libera concezione, o la temeraria utopia di far sorgere una Chiesa di propria invenzione non consentano di riflettere alla superficialità di simile ambizione, specialmente se il cambiamento delle strutture si propone di cominciare col distruggere, non col riformare, quelle che esistono, e se l’iniziativa manca d’autorità e d’esperienza per così grave operazione. Sotto il velo trasparente d’un astratto nominalismo si auspicano talora novità eversive, senza tener conto di due cose, che dovrebbero raccomandarci saggezza e prudenza; la prima, che l’ammodernamento delle strutture, diciamo meglio, della legislazione ecclesiastica è già in corso; ma per essere sana e vitale e promossa dalla corresponsabilità di chi sa e di chi può, esige studio e pazienza, a cui Noi per primi cerchiamo dare impulso, specialmente con la revisione del Codice di Diritto Canonico; la seconda, che le strutture, fatte oggetto di contestazione, sono spesso tutt’altro che contrarie agli effetti che il loro cambiamento vorrebbe conseguire. Chi conosce la Chiesa al di dentro, lo sa; e pur lamentando certi difetti innegabili, vede come l’amore, l’obbedienza, la fiducia, lo zelo possano benissimo rianimare il tronco, come quello d’un annoso ulivo, delle vecchie strutture per una nuova vegetazione di genuina vitalità cristiana.

Ma tant’è: si vorrebbero mutare le strutture; e da molti, così dicendo, si pensa al fastidio dell’autorità nella Chiesa. La si vuole abolire, e non si può; la si vuole derivare dalla comunità; e si contravviene ad un carattere costituzionale della Chiesa, che Cristo ha voluto apostolica; la si vuole servizio, e sta bene, purché il servizio sia quello dovuto della potestà pastorale; la si vuole ignorare; ma come resterà autentico un cristianesimo senza magistero, senza ministero, senza unità e potestà derivante da Cristo? (cfr. Gal. 1, 8-9; 2 Cor. 1, 24; 2 Cor. 10, 5; ecc.; S. IGNAZIO D’A., Ai Magnesii, c. IV). L’autorità nella Chiesa! per chi ne sperimenta il grave peso, e non ne ambisce l’onore, non è facile farne l’apologia! basti ora a Noi l’averne fatto questa modesta difesa.

FEDE, CARITÀ, DISCIPLINA COSTITUISCONO L'UNITÀ

Il Nostro discorso si fa lungo senza che vi abbiamo parlato di ciò che più ora a Noi preme: ed è il rinnovamento del tessuto dei rapporti nell’interno della nostra Chiesa. Vorremmo che la Diocesi di Roma, ancora, primeggiasse nella carità (cfr. S. IGNAZIO D’A., Ad Rom., Prologo); ed elogiamo e incoraggiamo quanti di voi operano per dare consistenza alla nostra comunità romana, per darle afflato d’amicizia, di bontà, di concordia, di mutua stima e fiducia, di volonterosa collaborazione. Desideriamo che «non sint in vobis schismata» (1 Cor. 1, 10); vi possono essere disparità di vedute pratiche, diversità di libere opinioni, varietà di ricerche scientifiche, molteplicità di iniziative pastorali, novità di istituzioni buone, e così via; ma insieme e soprattutto deve fra noi regnare l’unità di fede, di carità, di disciplina. Vogliate avvertire, carissimi, come lo stile del Nostro governo ecclesiastico voglia essere pastorale, e cioè voglia essere guidato dal dovere e dalla carità, aperto alla comprensione e all’indulgenza, esigente nella lealtà e nello zelo, ma paterno e fraterno e umile nel sentimento e nelle forme. Sotto questo aspetto, se il Signore Ci aiuta, vorremmo essere amati. Così voi riconosceteci ed aiutateci. E parimente voi, Sacerdoti anziani o rivestiti di qualche responsabile ufficio, procurate di comprendere i vostri Confratelli, quelli che sono tenuti a prestarvi l’opera loro, i Sacerdoti giovani in modo particolare. E questi, i cari, i nostri Sacerdoti giovani, si sappiano benvoluti e stimati; e vogliano, sì, usare del dialogo per stabilire con i loro Superiori relazioni di sincerità e di fiducia, senza però togliere a chi dirige la responsabilità e la libertà di deliberare, .e senza privare se stessi del merito dell’obbedienza. È in uno studio di comune obbedienza che si compie e si celebra fra noi il mistero redentore dell’obbedienza di Cristo. Diamo vita alle nuove istituzioni ecclesiali, che il Concilio ha prescritto: il Consiglio Presbiterale e la Commissione Pastorale; diamo ai problemi diocesani un interessamento solidale e un’attività rinnovata e generosa; facciamo, in una parola, della carità, nel suo interiore carisma di grazia e di amore, e nel suo esteriore esercizio di servizio ad ogni bisogno dei fratelli e della società, alle necessità dei Poveri specialmente, ai problemi del ceto operaio e di quello studentesco, alla causa di Cristo, in una parola, il nostro programma quaresimale, affinché possiamo tutti celebrare e rivivere con pienezza di fede e di letizia il mistero pasquale.

A tanto vi conforti la Nostra Apostolica Benedizione.



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