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DISCORSO DEL SANTO PADRE PAOLO VI
AL TRIBUNALE DELLA SACRA ROMANA ROTA
PER L'APERTURA DEL NUOVO ANNO GIUDIZIARIO

Giovedì, 8 febbraio 1973

 

Vivissima gioia ci procura questo incontro annuale con voi, venerati uditori e ufficiali della Sacra Romana Rota, perché oltre a darci l’opportunità di rinnovare l’espressione della nostra fiducia nella missione che, come Pastore-Vicario di Cristo, vi abbiamo affidata, ci offre altresì la possibilità di conoscere i vostri sentimenti e i vostri propositi. Abbiamo così potuto sentire riaffermata, attraverso le parole del vostro venerato decano, monsignor Boleslao Filipiak, la vostra sollecitudine pastorale; sollecitudine che presso di voi è una tradizione di saggia equità, di «sacerdotale moderazione» (Cfr. AAS 62, 1970, 112), e corrisponde pienamente allo spirito della Chiesa, alle direttive del Concilio Vaticano II e ai voti di tutto l’episcopato cattolico. In realtà le qualità del diritto che voi applicate devono apparire nell’esercizio della vostra funzione e nelle sentenze che pronunziate. Interpretando il diritto, voi fate uso dei poteri e della libertà che vi sono stati concessi; per voi, un giusto giudizio non è soltanto una sentenza dove si riscontra l’equità naturale; esso riflette ancor più quella aequitas canonica che è frutto della vostra carità pastorale e costituisce una delle sue più delicate espressioni.

Nel lavoro del legislatore canonico, come nell’opera del giudice ecclesiastico, l’aequitas canonica resta un ideale sublime e una regola preziosa di condotta. Ciò fu richiamato assai chiaramente durante la preparazione del Concilio: In omnibus legibus ferendis eluceat spiritus caritatis et mansuetudinis Christi, qui semper aurea et perennis regula Ecclesiae est, et leges iudiciaque informare debet (Relatio super schema Voti de Matrimonii Sacramento cum textu emendato, p. 13. Typis Polygl. Vatic. 1964). Tra le norme per la revisione del codice, approvate dal primo Sinodo dei Vescovi, ancora una volta fu raccomandata questa «regula aurea»: Codex non tantum iustitiam sed etiam sapientem aequitatem colat quae fructus est benignitatis et caritatis ad quas virtutes exercendas Codex discretionem atque scientiam Pastorum et iudicum excitare satagat (Principia quae Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigunt, sub 3, in Communicationes 1, 1969, 79). Il diritto canonico così appare non solamente come norma di vita e regola pastorale, ma altresì come scuola di giustizia, di discrezione e di carità operante. Tutto ciò dove potrà meglio verificarsi se non presso di voi, nel vostro Tribunale, dove lo stesso diritto è applicato a servizio delle anime?

Abbiamo avuto già occasione di manifestarvi il nostro desiderio di approfondire questo concetto di aequitas canonica, per metterne in luce il valore (Cfr. AAS 62, 1970, 112). Oggi ci proponiamo di farlo; e a tal fine occorrerà risalire alla natura stessa del diritto della Chiesa.

NATURA PASTORALE DEL DIRITTO DELLA CHIESA

Indirizzandoci a giudici provenienti da ogni nazione e qui riuniti, noi recentemente abbiamo ricordato che il diritto canonico est ius societatis visibilis quidem sed supernaturalis quae verbo et sacramentis aedificatur et cui propositum est homines ad aeternam salutem perducere (Communicationes 4, 1972, 99). Per questo motivo è un Ius sacrum, prorsus distinctum a Iure civili. Et quidem ius generis peculiaris hierarchicum idque ex ipsa voluntate Christi. Id totum inseritur in actionem salvificam qua Ecclesia opus redemptionis continuat (Ibid.). Così il diritto canonico è per la sua natura pastorale, espressione e strumento del munus apostolicum ed elemento costitutivo della Chiesa del Verbo Incarnato.

In quanto società visibile, la Chiesa possiede il suo diritto, fondato sulla natura stessa della Chiesa come «popolo costituito in corpo sociale, organico, in virtù di un disegno e di un’azione divina, mediante un ministero di servizio pastorale - ci piace sottolinearlo - che promuove, dirige, ammaestra e santifica in Cristo l’umanità che a Lui aderisce nella fede e nella Carità» (AAS 62, 1970, 108). Il Concilio ha voluto chiarire questo mistero sottolineando il carattere sacramentale della società ecclesiale: Ecclesia in Christo veluti sacramentum seu segnum et instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis (Lumen Gentium, 1). Ipse sanguine suo Eam acquisivit, suo Spiritu replevit, aptisque mediis unionis visibilibus et socialibus instruxit (Ibid.). In ciò vi è una analogia misteriosa; infatti, prosegue il Concilio, sicut natura assumpta Verbo Divino ut vivum organum salutis, Ei indissolubiliter unitum inservit, non dissimili modo socialis compago Ecclesiae Spiritui Christi Eam vivificanti ad augmentum Corporis inservit (Ibid. 8). Tale unione è così stretta da non permettere che questi due aspetti, pur distinti, siano in opposizione tra loro. La società visibile è comunità spirituale, e questa non può esistere senza e al di fuori di quella: Societas . . . organis hierarchicis instructa et mysticum Christi Corpus, coetus adspectabilis et communitas spiritualis, Ecclesia terrestris et Ecclesia caelestibus donis ditata, non ut duae res considerandae sunt, sed unam realitatem complexam efformant, quae humano et divino coalescit elemento. Ideo ob non mediocrem analogiam incarnati Verbi mysterio assimilatur (Lumen Gentium, 8). Il diritto tende a strutturare e ad organizzare questa realtà organica quae iuridicam formam exigit et simul caritate animatur (Ibid. Nota praevia, 2). Diritto e Carità non possono essere in opposizione là dove sono essenzialmente uniti.

Ciò ha indotto un Padre del primo Sinodo dei Vescovi ad affermare che nella Chiesa il divino e l’umano non sono due cose che si oppongono, ma elementi che si uniscono in una sola realtà. Il loro rapporto non è sicut res ad rem. Potius . . . utrumque elementum, tamquam essentialiter constitutivum, unitatem vitae Ecclesiae efformant ita ut structura externa sit ad modum signi sacramentalis quo vita interna Ecclesia significatur et creatur. Hac ratione tota Ecclesiae activitas iuridica est ad modum signi sacramenti salutis quod est Ecclesia quin hoc signum ad activitatem iuridicam restringatur. Sub hoc aspectu, activitas iuridica Ecclesiae non potest habere alium finem nisi manifestare et inservire vitae Spiritus scilicet vitae divinae fidelium, praesertim caritati (Communicationes 1, 1969, 97-98). Ci piace rilevare che la redazione del Ius novum, che dovrà necessariamente ispirarsi al Concilio, non farà che applicare tale dottrina; ed anche i principii di questa revisione riprenderanno la dottrina stessa (Cfr. Communicationes 1, 1969, 79).

La sacramentalità della Chiesa assicura la sua unione con Dio, la sua efficacia soprannaturale, il suo senso di Cristo. Essa è, inoltre, animata dallo Spirito che costruisce ed anima il Corpo Mistico di Cristo, Popolo di Dio, vi trasfigura gli uomini in figli di gloria e loro assicura la libertà dei figli di Dio; li fa pregare con la preghiera di Gesù (Cfr. Rom. 8, 15) ed agisce nel loro apostolato. Ogni apostolato è atto di Cristo; esso non può esercitarsi che sotto l’impulso dello Spirito. E come lo Spirito scandaglia le profondità di Dio (Cfr. 1 Cor. 2, 10), e sa ciò che piace al Signore (Cfr. Rom. 8, 27), così suscita in noi una preghiera ineffabile e continua l’azione salvifica di Cristo attraverso gli atti dei suoi membri, Pastori e fedeli. Se il Diritto canonico ha il suo fondamento in Cristo, Verbo Incarnato, e pertanto ha valore di segno e di strumento di salvezza, ciò avviene per opera dello Spirito che gli conferisce forza e vigore; bisogna adunque che esso esprima la vita dello Spirito, produca i frutti dello Spirito, riveli l’immagine di Cristo. Per questo è un diritto gerarchico, un vincolo di comunione, un diritto missionario, uno strumento di grazia, un diritto della Chiesa. Queste qualità sono le esigenze dello Spirito che vivifica e dirige la Chiesa, l’unisce a Cristo, la porta a Dio e agli uomini in uno stesso slancio d’amore. È questo lavoro dello Spirito che noi vorremmo ora rilevare nella evoluzione di questa aequitas canonica che conferisce al diritto della Chiesa la sua fisionomia, il suo carattere pastorale.

L’«AEQUITAS CANONICA» NELLA SUA EVOLUZIONE E NEL SUO AVVENIRE

La Chiesa è, come abbiamo visto, sacramento di Gesù Cristo, come Gesù Cristo nella sua umanità è sacramento di Dio (Cfr. H. DE LUBAC, Méditation sur l’Eglise, p. 157, Park 1953). È in questo mistero che dobbiamo vedere la funzione del diritto canonico, la vostra missione e quella virtù che, a poco a poco istituzionalizzata, è diventata l’aequitas canonica, definita dall’Hostiensis iustitia dulcore misericordiae temperata (Summa aurea, Lib. V, De Dispensationibus.): definizione che sarà ripetuta da tutti i canonisti. L’Hostiensis così prosegue: Hoc autem a Cypriano sic describitur: aequitas est iustitia, est motus rationabilis regens sententiam et rigorem. Haec est enim aequitas quam iudex, qui minister est, semper debet habere prae oculis, scilicet sciat bonos remunerare, malos punire. Via regia incedens et se rationabiliter regens, non declinans ad dexteram vel sinistram. A leggere questo testo non vediamo noi forse apparire una luce, il Signore della giustizia e della grazia, il Salvatore e il Giudice degli uomini?

La Chiesa fin dalla sua origine assunse nella sua vita tutto ciò che nella vita sociale e nelle aspirazioni degli uomini vi era di vero, di nobile, di giusto e di bello, facendo così risplendere la carità di Dio nell’umanità divinizzata dallo Spirito di Amore. L’equità rappresenta una delle più alte aspirazioni dell’uomo. Se la vita sociale impone le determinazioni della legge umana, tuttavia le sue norme, inevitabilmente generali ed astratte, non possono prevedere le circostanze concrete nelle quali le leggi verranno applicate. Di fronte a questo problema, il diritto ha cercato di emendare, di rettificare e anche di correggere il rigor iuris; e ciò avviene per opera dell’equità, la quale in tal modo incarna le aspirazioni umane verso una migliore giustizia.

Nel diritto canonico l’aequitas, che la tradizione cristiana ricevette dalla giurisprudenza romana, costituisce la qualità delle sue leggi, la norma della loro applicazione, una attitudine di spirito e d’animo che tempera il rigore del diritto. La presenza dell’aequitas, come elemento umano correttivo e fattore di equilibrio nel processo mentale che deve condurre il giudice a pronunziare la sentenza, si riscontra nelle Decretali e in tutta la storia del diritto canonico, sia pure con denominazioni diverse.

Questo elemento in modo specialissimo caratterizza la vostra giurisprudenza. La Chiesa impone al giudice ecclesiastico l’obbligo di giudicare ex aequo et bono; quest’obbligo il vostro tribunale l’ha fatto sempre suo, soprattutto nel trattare le cause affidate arbitrio Rotae: è l’aequitus iure informata.

Il codice attuale ha fatto proprie le esigenze di misericordia e di umanità in vista di una giustizia più dolce, più comprensiva. Parla di aequitas naturalis, di aequitas canonica, richiamandosi al principio ultimo, a cui si farà appello, il diritto naturale o il diritto canonico. Precisa poi la portata dell’aequitas e la funzione che le spetta: questa consiste in una giustizia superiore in vista di un fine spirituale; addolcisce il rigore del diritto, e talvolta aggrava anche certe pene; in ogni caso si distingue dal puro diritto positivo, allorché questo non può tener conto delle circostanze. Arriva infine a raccomandare perfino, conformemente alle origini apostoliche del diritto (Cfr. 1 Cor. 6, l-7), di evitare il processo, rimettendo la causa ad arbitri che giudichino ex bono et aequo (Can. 1929).

Oggi, l’influenza del Concilio Vaticano II si fa sentire sempre più sull’evoluzione del diritto: non si renderà forse necessario un ripensamento dell’aequitas canonica alla luce del Concilio stesso, per conferire ad essa un valore più cristiano e un significato più fortemente pastorale? I principi della revisione sembrano insinuarlo: la sapiens aequitas di cui essi parlano, è frutto di benignità e di carità. Un ripensamento di questa istituzione dovrà salvaguardare lo spirito.

VALORE PASTORALE DEL «MUNUS IUDICANDI»

È attraverso l’aequitas canonica che si afferma il carattere pastorale del vostro ufficio giudiziario, carattere anche recentemente riaffermato in maniera autorevole (D. STAFFA, De natura pastorali administrationis iustitiae in Ecclesia, in «Periodica» 61, 1972, 3-17). Invero questo ministero della Chiesa è, nel pieno senso della parola, pastorale; è un ministero del sacerdozio cristiano (Lumen Gentium, 27); ha le sue radici nella missione che il Signore affidò al «Primo Pietro» (PIO XII, Discorsi, vol. III, p. 209), il quale nei suoi successori continua a governare, a insegnare e a giudicare (Cfr. CONC. VAT. I, Constitutio dogmatica de Ecclesia I: DENZ-SCHÖN. 3056); fa parte integrante del mandato apostolico e ne sono partecipi tutti coloro, sacerdoti e laici, che sono chiamati ad esercitare la giustizia in nome nostro e in nome dei nostri fratelli nell’episcopato. Questo potere fu esercitato dagli Apostoli, e i loro successori hanno continuato tale missione. Seguendo il consiglio dell’Apostolo delle Genti, essi hanno giudicato anche le cause civili per farvi prevalere il diritto temperato dalla carità (Cfr. 1 Cor. 6, 1-7). Lo rammenta S. Agostino: Constituit enim talibus causis ecclesiasticos cognitores, in foro «civili» prohibens iurgari christianos (Enarrationes in Ps. CXVIII, Sermo XXVIII, 3). Quando il cristianesimo avrà trasformato i costumi della società, queste cause secolari saranno rimesse al foro civile, dove pure si ama vedere la giustizia applicata secondo le norme della Verità divina.

Questo ministero del giudice ecclesiastico è pastorale perché viene in aiuto ai membri del Popolo di Dio, che si trovano in difficoltà. Il giudice è per essi il buon Pastore che consola chi è stato colpito, guida chi ha errato, riconosce i diritti di chi è stato leso, calunniato o ingiustamente umiliato. L’autorità giudiziaria è tosi un’autorità di servizio, un servizio che consiste nell’esercizio del potere affidato da Cristo alla sua Chiesa per il bene delle anime.

Tale servizio, per essere evangelico, eviterà qualsiasi forma di assolutismo o di egoismo; si compirà nel rispetto della persona, libera e responsabile; consisterà nel guidare senza opprimere, nell’amare un fratello che accetta l’obbedienza come dovere, e non come necessità estrinseca, come un bene per il cristiano e un beneficio per la comunità.

Il giudice terrà conto, grazie all’aequitas canonica, di tutto ciò che la carità suggerisce e consente per evitare il rigore del diritto, la rigidità della sua espressione tecnica; eviterà che la lettera uccida per animare i suoi interventi con la carità che è dono dello Spirito che libera e che vivifica; terrà conto della persona umana, delle esigenze della situazione che, se impongono talvolta al giudice il dovere di applicare la legge più severamente, ordinariamente portano ad esercitare il diritto in maniera più umana, più comprensiva: bisognerà vigilare non solamente per tutelare l’ordine giuridico, ma altresì per guarire ed educare, dando prova di vera carità. L’esercizio pastorale del potere giudiziario è piuttosto medicinale che vendicativo; se vi sono delle pene, queste non dovranno apparire mai come una vendetta, ma secondo il pensiero di S. Agostino, come una espiazione desiderata (Cfr. De Civitate Dei, 21, 13).

Opera pastorale sarà ancora questa dottrina ponderata, costantemente rinnovata e adattata in virtù della stessa aequitas canonica che voi applicate. Le decisioni rotali sono un monumento di scienza giuridica e di saggezza cristiana, cui si aggiungono oggi come felice complemento le decisioni del Tribunale Supremo della Segnatura Apostolica, regolarmente pubblicate. Profittiamo sufficientemente di questi tesori che contengono non soltanto norme giuridiche e regole di diritto, ma altresì numerose indicazioni pastorali di carattere psicologico e sociale? 

Ma parlare oggi di Pastorale comporta un altro significato, che ha un legame profondo col compito pastorale dell’episcopato e la missione apostolica della Chiesa. La Pastorale è l’organizzazione ben ponderata dall’apostolato; essa ha di mira la ripartizione equilibrata delle persone, favorisce una migliore collaborazione mediante un programma pastorale fondato su una informazione seria ed oggettiva, programma che tuttavia non può soffocare lo Spirito (Cfr. 1 Cor. 12, 11), né impedire la libertà dei suoi doni (Cfr. 1 Thess. 5, 19). Questa pastorale d’insieme non può diventare né un vincolo, né una forma nuova di autoritarismo, di dominio o di centralizzazione eccessiva.

Più ancora di un rinnovamento del lavoro apostolico per mezzo di una migliore collaborazione, la Pastorale si preoccupa delle persone, di coloro che sono alla ricerca della verità, di coloro che devono crescere in Cristo. È in questo senso che una Costituzione del Concilio Vaticano II fu denominata pastorale; essa costituisce uno sforzo di inserzione e di presenza della Chiesa ex eo quod, principiis doctrinalibus innixa, habitudinem Ecclesiae ad mundum et ad homines hodiernos exprimere intendit (Gaudium et Spes, 1 , et nota 1).

Il diritto canonico, così come i Pastori e i giudici, deve aprirsi alle esigenze di una pastorale rinnovata. Quemadmodum omnia quae in Ecclesia sunt - così affermava il nostro venerato Predecessore Pio XII - ita ius canonicum quoque omnino in animarum curationem contendere . . . Sive cum is ecclesiasticas res administrat, sive cum iudicia exercet, sive cum sacrorum administrator aut Christi fideles consilio iuvat, assidue cogitet a se de animorum salute . . . rationem esse reddendam (AAS 45, 1953, 688).

Siamo lieti di avere potuto svolgere queste riflessioni insieme a voi sulle esigenze della vostra missione, sulla natura del diritto canonico e sul mistero della Chiesa. Questo mistero è sempre presente al nostro spirito, l’abbiamo fatto così spesso oggetto delle nostre considerazioni, le sue divine profondità ci appaiono sempre più luminose e confortanti: Ecclesia de Trinitate (Cfr. S. CYPRIANI De Orat. Dom. 23: PL. 4, 553). La Chiesa è questo Christus totus che, nello Spirito, unisce l’umanità alla vita divina dove il Padre dei Lumi si esprime nel Suo Verbo per unirsi ambedue in questo mutuo amore che è lo Spirito Santo. La Chiesa è il sacramento di questo amore: ecco perché essa è madre degli uomini creati a immagine di Dio e salvati dal Verbo fatto carne; essa è segno di vita divina e strumento di salvezza. E voi, pronunziando le vostre sentenze solum Deum prae oculis habentes servite e adorate proprio questo Dio d’Amore.

La giustizia che dovete esercitare con equità canonica, voi la volete più agile, più dolce, più serena. Più agile: infatti la prudenza non necessariamente si identifica con la lentezza la quale talvolta si risolve in una vera ingiustizia con grande danno delle anime; più mite: ma l’equità canonica non plus aequo urgeatur ita ut normas neglegere suadeat, perché allora diventerebbe dannosa e causa d’incertezza (F. ROBERTI, De processibus, p. 99); più serena: ma ancora, niente più nuocerebbe all’ordine sociale di una giurisprudenza la quale, per essere pastorale, vuol fare a meno del diritto; per sanare penose situazioni, porta pregiudizio alla verità rivelata e ai dati della fede; e nel consenso matrimoniale non riesce più a scorgere quel contratto di fedeltà e quel segno di unione che nella volontà umana è il primo fiore dell’amore.

Ci è nota la preoccupazione di tanti giudici che, al pari di voi, vedono diminuire il numero degli studenti nelle nostre facoltà di diritto canonico. Questa situazione pone certe Chiese particolari nella impossibilità di esercitare con competenza e rapidità il munus iudicandi loro affidato da Dio; e può altresì recare pregiudizio al pieno esercizio delle prerogative dell’episcopato.

Ecco i pensieri che abbiamo creduto bene sottoporre alla vostra riflessione, nella fiducia che vi faranno comprendere sempre più che la vostra missione è importante, che la vostra responsabilità è pastorale, che le vostre sentenze possono apportare pace e conforto. In segno della nostra riconoscenza e della nostra stima, noi, di cuore impartiamo a voi tutti qui presenti e ai vostri collaboratori la nostra Apostolica Benedizione.

                                            



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