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DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO XII
AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO
DELLA CONFEDERAZIONE NAZIONALE
DEI COLTIVATORI DIRETTI D'ITALIA*

Aula della Benedizione - Venerdì, 15 novembre 1946

 

Al particolare compiacimento che Noi proviamo ogniqualvolta Ci è dato di accogliere i rappresentanti delle diverse professioni, le cui svariate attività costituiscono nel loro insieme la vita economica e sociale di un popolo, si aggiunge in questo momento la soddisfazione che sentiamo nel salutare in voi, diletti figli, i delegati di una vasta Confederazione Nazionale, comprendente un gran numero di agricoltori, i quali coltivano essi stessi con le loro famiglie le terre, che o appartengono loro in proprietà o dai proprietari in virtù di un contratto sono state loro affidate. Sono le dolci terre, dulcia arva, tanto care al mite Virgilio (Eclog. I, 3), le terre d'Italia, di cui Plinio (Nat. Histor. 1. III, 5, n. 41) esaltava la vitale e perenne salubrità, i fertili campi, i colli aprichi, i boschi ombrosi, la feracità delle viti e degli olivi, i pingui armenti. O fortunatos nimium, sua si bona norint, agricolas! (Verg. Georg. II, 458-459). O veramente fortunati agricoltori, esclamava il gran poeta campestre, se conoscono i loro beni ! Non vorremmo quindi lasciar passare questa occasione senza rivolgervi una parola di incoraggiamento e di esortazione, tanto più perché ben sappiamo quanto il risanamento morale di tutto il popolo dipenda da una classe di agricoltori socialmente integra e religiosamente salda. 

I. – Più che altri, voi vivete in contatto permanente con la natura; contatto materiale per il fatto che la vostra vita si svolge in luoghi ancora lontani dagli eccessi di una civiltà artificiale ed è tutta volta a far sorgere dalle profondità del suolo, sotto il sole del Padre divino, le ricchezze abbondanti che la sua mano vi ha nascoste; contatto anche altamente sociale, perché le vostre famiglie non sono soltanto comunità di consumo dei beni, ma anche e particolarmente comunità di produzione.

In questo radicarsi profondo, generale, completo e perciò così conforme alla natura, della vostra vita nella famiglia consiste la forza economica e nei tempi critici anche la capacità di resistenza, di cui siete dotati, come altresì la vostra sperimentata importanza per il retto sviluppo del diritto e dell'ordine privato e pubblico di tutto il popolo; e finalmente la indispensabile funzione che siete chiamati ad esercitare come fonte e difesa di vita intemerata, morale e religiosa, come vivaio di uomini sani di anima e di corpo per tutte le professioni, per la Chiesa e per lo Stato.

Tanto più quindi si deve aver cura acciocchè gli elementi essenziali di quella, che potrebbe chiamarsi genuina civiltà rurale, siano conservati alla Nazione: laboriosità, semplicità e schiettezza di vita; rispetto dell'autorità, anzitutto dei genitori; amore di patria e fedeltà alle tradizioni che si sono nel corso dei secoli dimostrate feconde di bene; prontezza al soccorso reciproco, non solo nella cerchia della propria famiglia, ma anche di famiglia in famiglia, di casa in casa; finalmente quell'uno, senza di cui tutti quei valori non avrebbero consistenza alcuna, perderebbero ogni loro pregio e si risolverebbero in una sfrenata avidità di guadagno: vero spirito religioso. Il timor di Dio, la fiducia in Dio, una fede viva che trova la sua quotidiana espressione nella preghiera in comune della famiglia, reggano e guidino la vita dei lavoratori dei campi; la chiesa rimanga il cuore del villaggio, il luogo sacro, che, secondo le sante tradizioni dei padri, di domenica in domenica ne riunisce in sè gli abitanti, per elevare gli animi loro al di sopra delle cose materiali a lode e servizio di Dio, per impetrare la forza di pensare e di vivere cristianamente in tutti i giorni della veniente settimana.

Il fatto che l'azienda agricola ha un carattere eminentemente familiare, la rende così importante per la prosperità sociale ed economica di tutto il popolo, e conferisce all'agricoltore un titolo speciale a trarre dal suo lavoro il proprio conveniente sostentamento. Senza dubbio, chi guardasse soltanto ad un provento il più possibile alto e rapido dell'economia nazionale, o ad un approvvigionamento, il più possibile a buon mercato, della Nazione con prodotti della terra, potrebbe essere sotto questo aspetto tentato di sacrificare più o meno l'azienda agricola; del che si hanno parecchie e non incoraggianti esempi nell'ultimo secolo e nel tempo presente.

A voi dunque appartiene di mostrare che essa, appunto per il suo carattere familiare, non esclude i reali vantaggi di altre forme di azienda e ne evita i danni. Mostratevi dunque adattabili, attenti e attivi curatori della zolla nativa, che sempre deve essere usata, giammai sfruttata. Mostratevi uomini riflessivi, parsimoniosi, aperti al progresso, che coraggiosamente impegnano il proprio e l'altrui capitale, in quanto giova al lavoro e non pregiudica l'avvenire della famiglia. Mostratevi onesti venditori, non cupidi calcolatori a danno del popolo, e ben disposti compratori al mercato interno del Paese.

Noi ben sappiamo quanto questo ideale faccia non di rado difetto. Quali che possano essere la rettitudine delle intenzioni e la dignità della condotta, vanto di molti produttori agricoli, non è men che vero che occorre oggi una grande fermezza di principi ed energia di volontà per resistere alla diabolica tentazione del facile guadagno, che specula ignobilmente sulle necessità del prossimo, piuttosto che guadagnare la vita col sudore della fronte.

Spesso quel difetto proviene anche da colpa dei genitori, che troppo presto adoperano i figli per il lavoro e trascurano la loro spirituale formazione ed educazione, ovvero da mancanza della necessaria istruzione scolastica, e soprattutto professionale. Non vi è infatti più erroneo pregiudizio del credere che il coltivatore dei campi non abbia bisogno di una seria e adeguata coltura per compiere nel corso dell'anno la sua opera indefinitamente varia di ogni stagione. - Il peccato invero ha reso penoso il lavoro della terra, ma non lo ha esso stesso introdotto nel mondo. Prima del peccato Dio aveva dato all'uomo la terra affinché la coltivasse, come la occupazione più bella e più onorevole nell'ordine naturale. Continuando l'opera di peccato dei nostri primi genitori, i peccati attuali di tutta l'umanità hanno fatto pesare sempre più la maledizione sulla terra. Colpito successivamente da tutti i flagelli, diluvi, cataclismi tellurici, miasmi pestilenziali, guerre devastatrici, il suolo in alcune parti deserto, sterile, malsano, ed ora celante ordigni micidiali che spiano ansiosamente le loro vittime, si è rifiutato di elargire spontaneamente all'uomo i suoi tesori. La terra è la grande ferita, la grande malata. Chinato su di lei, non come lo schiavo sulla gleba, ma come il clinico sul letto del paziente, il coltivatore le prodiga le sue cure con amore. Ma l'amore, pur così necessario, non basta. Per conoscere la natura e, per così dire, il temperamento del suo pezzo di terra, talvolta così differente anche da quello immediatamente vicino, per scoprire i germi che lo guastano, i roditori che verranno a scavarlo, i vermi che verranno a divorare il suo frutto, i logli che verranno a infestare le sue messi, per trovare gli elementi che gli mancano, per scegliere le colture successive che l'arricchiranno nel suo stesso riposo, per queste e tante altre cose, occorrono vaste e varie cognizioni.

Oltre a ciò, il terreno ha bisogno in molte regioni — prescindendo dalla riparazione dei danni bellici — di accurati e ponderati provvedimenti preliminari, prima che si possa attuare una riforma delle condizioni della proprietà e dei rapporti contrattuali. Senza di questo, come l'esperienza e la storia insegnano, una tale riforma improvvisata si ridurrebbe ad essere una pura demagogia, e quindi, anzichè giovevole, inutile e dannosa, particolarmente oggi, quando l'umanità deve ancora temere per il suo pane quotidiano. Già più volte nella storia le grida incomposte di sobillatori hanno reso le popolazioni delle campagne schiave di un dominio da cui esse intimamente rifuggivano, e oggetto inconsapevole di sfruttamento.

2. — Tale ingiustizia apparisce tanto più grande, quanto più la vita del contadino ha il suo fondamento nella famiglia, ed è quindi vicina alla natura. Essa trova la sua aperta espressione nella opposizione fra città e campagna, che è pur troppo particolarmente caratteristica del nostro tempo. Quale ne è il vero motivo?

Le città moderne col loro costante ingrandimento, con la loro agglomerazione di abitanti, sono il tipico prodotto del dominio degli interessi del grande capitale sulla vita economica; e non solo sulla vita economica, ma anche sull'uomo stesso. Come infatti il Nostro glorioso Predecessore Pio XI nella sua Enciclica Quadragesimo anno ha efficacemente mostrato, accade troppo spesso che non più i bisogni umani regolino secondo la loro importanza naturale e obiettiva la vita economica e l'impiego del capitale, ma al contrario il capitale e il suo interesse di acquisto determinino quali bisogni e in quale misura debbano essere soddisfatti; che quindi non il lavoro umano destinato al bene comune attiri a sé il capitale e lo ponga al suo servizio, ma che invece il capitale muova di qua e di là il lavoro e l'uomo stesso come palle da giuoco.

Se già l'abitante della città soffre per questo stato innaturale, tanto più esso è contrario all'intima essenza della vita dell'agricoltore. Poiché, nonostante tutte le difficoltà, il lavoratore dei campi rappresenta ancora l'ordine naturale voluto da Dio, e cioè che l'uomo deve col suo lavoro dominare le cose materiali, e non le cose materiali l'uomo.

Questa è dunque la causa profonda dell'odierno contrasto fra città e campagna: esso forma uomini addirittura diversi. E tale contrasto diviene tanto più grande, quanto più il capitale, abdicando la sua nobile missione di promuovere il bene della società in ciascuna delle famiglie che la compongono, penetra nel mondo stesso dei coltivatori o altrimenti lo coinvolge negli stessi danni. Esso fa scintillare l'oro e una vita di piacere dinanzi agli occhi abbagliati del lavoratore dei campi, per indurlo ad abbandonare la terra e a perdere nella città, che non gli riserva il più delle volte se non delusioni, i risparmi laboriosamente accumulati, e non di rado anche la salute, le forze, la gioia, l'onore, la stessa anima. Questa terra così abbandonata il capitale si affretta a farla sua; essa allora non è più oggetto di amore, ma di freddo sfruttamento. La terra, nutrice generosa delle città non meno che delle campagne, non produce più che per la speculazione, e mentre il popolo soffre la fame e l'agricoltore, gravandosi di debiti, va lentamente verso la rovina, l'economia del Paese si esaurisce per acquistare a caro prezzo gli approvvigionamenti che è costretta a far venire dall'estero.

Questo pervertimento della proprietà privata agricola è grandemente dannoso. Come essa non ha più amore né interesse per il campo, che tante generazioni avevano affettuosamente, lavorato, così è senza cuore per le famiglie che lo lavorano e che vi dimorano. Ciò non dipende però dall'istituto della proprietà privata in quanto tale. Anche là ove lo Stato avoca a sè interamente il capitale e i mezzi di produzione, gl'interessi dell'industria e del commercio estero, propri delle città, hanno il sopravvento. Il vero agricoltore soffre allora ancor più. Ad ogni modo rimane violata la verità fondamentale sempre sostenuta dalla dottrina sociale della Chiesa, che cioè la economia di un popolo è un tutto organico, nel quale tutte le possibilità produttive del territorio nazionale debbono essere sviluppate in sani reciproca proporzione. Mai non sarebbe divenuta così grandi la opposizione fra città e campagna, se quella verità fondamentale fosse stata osservata.

Voi coltivatori certamente non volete un simile contrasto; volete che ad ogni parte dell'economia nazionale si dia il suo; volete però anche conservare il vostro. Perciò una ragionevole politica economica e un sano ordinamento giuridico debbono prestarvi il loro sostegno. Ma l'aiuto principale deve venire da voi stessi, dalla vostra unione cooperativa, specialmente anche nei problemi del credito. Forse allora dal settore dell'agricoltura verrà il risanamento di tutta la economia.

3. — Finalmente una parola intorno al lavoro. Voi coltivatori costituite con le vostre famiglie una comunanza di lavoro Voi siete però anche coi vostri compagni e consoci una comunanza di lavoro. Voi volete finalmente formare con tutti i gruppi professionali del popolo una grande comunanza di lavoro. Questo è secondo l'ordinamento di Dio e della natura; questo è il vero concetto cattolico del lavoro. Esso unisce gli uomini in un servizio comune per i bisogni del popolo, in un medesimo sforzo per il proprio perfezionamento a onore del loro Creatore Redentore.

Ad ogni modo, restate fermi nel considerare il vostro lavori secondo il suo intimo valore, come contributo vostro e delle vostre famiglie alla pubblica economia. Con ciò rimane fondato il diritto a un sufficiente reddito per un sostentamento corrispondente alla vostra dignità di uomini e anche ai vostri bisogni culturali; ma importa anche il vostro riconoscimento della necessaria unione con tutti gli altri gruppi professionali che lavorano per i vari bisogni del popolo, e con ciò anche la vostra adesione al principio della pace sociale.

Noi invochiamo di cuore i più eletti favori celesti su di voi diletti figli, e sulle vostre famiglie, come la Chiesa sempre particolarmente vi ha benedetti e ha in molteplici maniere introdotto il vostro anno di lavoro nel suo anno liturgico; li invochiamo sul lavoro delle vostre mani, dal quale il santo altare di Dio riceve il pane ed il vino. Dia a voi il Signore, per adoperare le parole dei Libri Santi, « la rugiada del cielo e la pinguedine della terra e copia di grano e di vino» (Gen, 27, 28)! Possano le vostre terre, come già i fertili campi etruschi, che Livio ammirava tra Fiesole e Arezzo, essere ricchi di frumento e di bestiame e per abbondanza di tutte le cose, frumenti ac pecoris et omnium copia rerum opulenti (Liv. Ab Urbe condita l. XXII cap. 3)! Con questi sentimenti e con questi auguri impartiamo a voi e a tutte le persone che vi sono care la Nostra paterna Apostolica Benedizione.


*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, VIII,
 Ottavo anno di Pontificato, 2 marzo 1946 - 1° marzo 1947, pp. 303-309
 Tipografia Poliglotta Vaticana

 



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