Index   Back Top Print

[ FR  - IT  - PT ]

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II

AI VESCOVI DELLO ZAIRE 
IN VISITA «AD LIMINA APOSTOLORUM»

Sabato, 30 aprile 1983

 

Cari fratelli nell’Episcopato.

Questa riunione fraterna segna uno dei punti culminanti della vostra visita “ad limina”. Da parte mia, sono molto felice di accogliervi tutti insieme. Ringrazio Monsignor Kabanga Songasonga per i sentimenti di fiducia che mi ha espresso, facendosi interprete di tutti voi, e vi ringrazio tutti dei dialoghi franchi e aperti che avete già avuto con me e, spero, con i Dicasteri, durante queste giornate romane. Cerco di aver presente allo spirito i segni di speranza e i problemi delle vostre sedici diocesi delle province di Lubumbashi e di Kananga. Ne ho già affrontato un certo numero con i vostri confratelli che vi hanno preceduto. Oggi, mi sembra opportuno consacrare una riflessione più approfondita a uno dei problemi chiave che la vostra Conferenza mi ha del resto sottomesso come prioritario: quello della “teologia africana” cioè del contributo africano alla ricerca teologica.

2. Nei suoi aspetti generali, del resto, questo problema non è nuovo per la Chiesa. I primi capitoli del libro degli Atti mostrano bene come Pietro e gli altri apostoli abbiano per prima cosa vissuto in simbiosi con l’atmosfera ebraica di Gerusalemme. Ma ben presto si pose loro la questione degli ellenisti, cioè dei discepoli - ebrei o pagani - che erano di cultura greca. Due secoli non erano ancora passati che nasceva una terza forma di “cristianità”, le Chiese latine. Durante i secoli hanno così coabitato Chiese giudeo-cristiane, Chiese orientali e Chiese latine. Questa diversità si è talvolta accentuata fino a tensioni e scismi. Questo non impedisce che la coesistenza di queste diverse Chiese rimanga la manifestazione più tipica e per molti aspetti la più esemplare di un legittimo pluralismo nel culto, nella disciplina, nelle espressioni teologiche, così come indica il decreto Unitatis Redintegratio del Concilio Vaticano II (cf. Unitatis Redintegratio, 14-18).

3. Due tratti caratterizzano l’unità delle Chiese locali sparse per il mondo: la loro fedeltà al Cristo Fondatore, e la loro struttura gerarchica, che assicurano sia la continuità con Cristo, sia la comunicazione tra le Chiese particolari.

Quando si pensa ai legami delle nostre assemblee cristiane con il Signore Gesù, si ritorna sempre alle parole essenziali del Vangelo. In qualunque rito essi celebrino l’Eucaristia, i Vescovi e i sacerdoti richiamano, dopo la consacrazione, le parole di Gesù durante l’ultima Cena: “Hoc facite in meam commemorationem” (Lc 22, 19). E in modo più generale, la missione della Chiesa si riassume nelle ultime direttive di Cristo agli undici: “Euntes ergo docete omnes gentes, baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, docentes eos servare omnia quaecumque mandavi vobis” (Mt 28, 19-20). Troviamo qui le tre condizioni essenziali della presenza perpetua del Signore (“et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus . . .”): una fede comune, una vita sacramentale inaugurata dal battesimo, un programma di vita centrato sulle esigenze della fede.

Qui incontriamo nello stesso tempo i dati che vengono dalla fede, dalla cultura e dalla storia. La distinzione di questi tre livelli è certamente necessaria a chi vuole studiare da vicino l’inculturazione della vita cristiana. Questo non toglie che, nelle sue origini, il cristianesimo dipenda da questi tre elementi strettamente congiunti.

4. È ancora nella prospettiva dell’apostolicità che vorrei insistere su di un’altra condizione del legittimo pluralismo: quello del carattere gerarchico della Chiesa di Cristo, da cui deriva il ruolo fondamentale della gerarchia nella sua duplice missione di magistero e di sacerdozio. È evidente che tutti i cristiani d’Africa non partecipano nella stessa maniera all’elaborazione di una teologia. E anche, bisogna scartare vigorosamente l’idea che di fronte al ministeri e ai sacramenti, tutti i membri delle comunità cristiane abbiano le medesime responsabilità e gli stessi problemi. Dall’epoca apostolica, la Chiesa appare strutturata; accanto ai fedeli, vi sono gli “apostoli”, i “viri apostolici”, con i loro successori i Vescovi, i sacerdoti, i diaconi. Sia nella predicazione e nella pastorale così come nel servizio eucaristico, le funzioni sono diverse. Non si tratta di dominio, ma di servizio, di una missione del tutto particolare che assicura la presenza del Signore Gesù vicino a un gruppo di fedeli, ma anche che fonda la comunità di tutte le Chiese locali nella Chiesa unica e perfetta che è la Sposa di Cristo.

Vi fu forse un tempo in cui alcuni hanno insistito troppo esclusivamente sull’autorità del Magistero nell’organismo della vita della fede. Il Concilio Vaticano II ha messo giustamente in evidenza il fatto che la comprensione della Rivelazione si accresce non solamente attraverso “la predicazione di coloro che, con la successione episcopale, hanno ricevuto un carisma che certifica la verità”, ma anche attraverso “la contemplazione e lo studio dei credenti, e “l’intima intelligenza delle realtà spirituali di cui essi fanno esperienza” (Dei Verbum, 8). Da parte loro, i teologi si sono visti riconoscere un posto importante nella Chiesa. Essi sono i “coadiutori” formali del Magistero in particolare nell’accostamento a questioni nuove, nell’approfondimento tecnico dello studio delle origini della fede. Ciò non toglie che solo il Papa e il Collegio episcopale siano gli organi del magistero e che questo Magistero non può essere delegato (cf. Paolo VI, Allocutio Membris Commissionis Theologicae Internationalis, primum plenarium Coetum habentibus, 6 ottobre 1969: Insegnamenti di Paolo VI, VII [1969] 648 ss.).

Nell’esplosione della vita, nel ribollimento della ricerca intellettuale come nelle riflessioni sociologiche sull’inculturazione della fede, molte idee possono venir espresse, molte esperienze possono essere tentate. Ma non dimenticate che spetta a voi, Vescovi, in unione con il successore di Pietro, giudicare in ultima analisi sull’autenticità cristiana delle idee e delle esperienze. Il carisma della nostra ordinazione entra qui in gioco, perché siamo Dottori e Padri nella fede. Uno dei criteri del vostro giudizio sarà del resto la possibilità di comunicare con le altre Chiese locali: legittimamente fieri della vostra specificità africana, voi non avete però meno il dovere di scambiare le vostre espressioni e i vostri modi di vita con le altre comunità cristiane. Ciò facendo, siete i garanti dell’unità della Chiesa, e contribuite ad un arricchimento reciproco.

5. Se determinati modi di comprendere il “sensus fidelium” ricordato dal Concilio Vaticano II sono stati abusivi, è successo così anche per il sacerdozio comune dei fedeli. Riprendendo i termini della prima Lettera di Pietro, il Concilio ha dichiarato che il popolo di Dio forma una comunità sacerdotale e reale. Viene anche ben definita la differenza tra il sacerdozio ministeriale e il sacerdozio comune. Per celebrare l’Eucaristia, per rimettere i peccati, per assicurare la pienezza della vita sacramentale, le ordinazioni sono necessarie. Cristo ha scelto i Dodici e ha dato loro specifici poteri. L’ho ricordato ancora nella lettera indirizzata per il Giovedì Santo di quest’anno a tutti i sacerdoti (cf. Giovanni Paolo II, Epistula ad universos Ecclesiae Sacerdotes adveniente feria V in Cena Domini anno MCMLXXXIII, 27 marzo 1983). Seguendo le direttive di Cristo, gli apostoli hanno organizzato dei ministeri con responsabilità e poteri ben precisi. Alcuni hanno sfortunatamente dimenticato questi elementi indispensabili della fede negli anni che seguirono il Concilio. Ben presto alcuni teologi hanno preteso di “rimodellare” i ministeri. Ma, chi non lo vede? Un ministro designato dalla comunità, o come talvolta si dice dalla “base”, non può essere il legittimo collaboratore dei Vescovi e dei sacerdoti. Non si ricollega alla venerabile tradizione apostolica che da noi ai Dodici poi al Signore caratterizza la persistenza storica dell’imposizione delle mani per la comunicazione dello Spirito di Cristo.

6. Tutte queste osservazioni non vogliono avere niente di negativo. Si tratta di porre i fondamenti validi di un autentico contributo africano alla ricerca teologica, di ricercare le condizioni per le quali l’inculturazione africana del cristianesimo - di cui voi siete legittimamente preoccupati - sarà fruttuosa e benefica. Non è in gioco solamente la vita cristiana dell’Africa, si tratta anche di arricchire la Chiesa tutta intera con nuovi approcci dei misteri di Dio come attraverso un progresso spirituale e morale che mostra tutte le esigenze cristiane nell’azione.

Quali sono dunque i grandi compiti che attendono la “teologia africana”? Quando si esaminano i libri e gli articoli già pubblicati su questo tema, o ancora le mozioni di questa o di quella riunione, si percepisce che sono aperte due grandi vie di riflessione: una riflessione dottrinale sull’identità africana, e una lettura dei dati fondamentali del cristianesimo.

Per quanto concerne il problema dell’identità africana, sono già apparse opere documentate sull’essere, la personalità, la libertà, la concezione del mondo nelle differenti etnie. Questi libri sottolineano ciò che c’è di specifico in ciascuna di queste etnie e ciò che è loro comune. Questo aspetto di sintesi si rafforza ancora quando si accostano quelle opere che concernono la “filosofia dell’Africa”. Il rischio in questo campo è quello di rinchiudersi su se stessi. Ma l’episcopato dello Zaïre ha saputo guidare i suoi teologi, sacerdoti e laici, sulle strade di una giusta collaborazione con i centri di studio di altri Paesi.

È a partire da questo tipo di sintesi che vi state ritrovando, voi e i vostri fedeli, nella situazione di tutte le culture. Vi è posto qui per molte posizioni dottrinali diverse e più o meno legittime. Siete certamente coscienti di un pericolo: di lasciare che si costituisca una filosofia e una teologia dell’“africanità” che sarebbe unicamente autoctona e priva di un legame reale e profondo con Cristo; e in questo caso, il cristianesimo non sarebbe più che un riferimento verbale, un elemento artificialmente introdotto in aggiunta. L’Europa medioevale ha anch’essa conosciuto degli Aristotelici che di cristiano non avevano che il nome, come per esempio gli Averroisti che san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura hanno dovuto combattere con vigore. Nell’epoca attuale, si può percepire il medesimo pericolo nei tentativi fatti per costituire un hegelismo o un marxismo sedicenti cristiani.

È ben vero che “al pluralismo di ricerca e di pensiero, che esplora ed espone il dogma in vari modi, ma senza privarlo nell’identico significato oggettivo”, è riconosciuto “un diritto di legittima cittadinanza nella Chiesa, in quanto componente naturale della sua cattolicità, e segno della ricchezza culturale e dell’impegno personale di tutti coloro che ne fanno parte” (Paolo VI, Paterna cum Benevolentia, IV, 8 dicembre 1974: Insegnamenti di Paolo VI, XII [1974] 1277). Ma visto lo stretto rapporto tra la teologia e la fede, un pluralismo teologico che non tenesse conto del patrimonio comune della fede e delle basi comuni del pensiero umano che fondano una reciproca possibilità di comprensione diventerebbe pericoloso per l’unità stessa della fede: “Ceterum nos omnes fidem accepimus per continuatam planeque constantem traditionem” (Paolo VI, Allocutio E. mis Patribus Cardinalibus et Exc. mis Praesulibus e Synodo Episcoporum, cum tertius generalis Coetus exitum haberet, 26 ottobre 1974: Insegnamenti di Paolo VI, XII [1974] 1008). D’altra parte, come anch’io ho già ricordato ai professori e studenti dell’Università Pontificia Gregoriana, la ricerca teologica deve essere condotta con il necessario discernimento: “Vi sono infatti ottiche, scopi, linguaggi filosofici veramente limitati; vi sono sistemi scientifici talmente poveri e chiusi che rendono possibile una traduzione e un’interpretazione soddisfacente della Parola di Dio” (Giovanni Paolo II, Allocutio ad academicas Auctoritates, Professores et Alumnos Pontificiae Universitatis Gregorianae, aggregatorumque Institutorum, in eiusdem Athenaei aedibus habita, 5, 15 dicembre 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II/2 [1979] 1423).

7. Ma altra cosa è trasformare il cristianesimo in “culturalismo”, altra cosa è servirsi di una cultura per ritradurre in parole nuove e in prospettive nuove il dato biblico tradizionale. In questo compito, l’opera teologica realizzata in Africa può sicuramente offrire molti servizi, a condizione che alla base della lettura che essa intraprende vi sia la Bibbia, i Concili, i documenti del Magistero conosciuti nella loro autenticità e nella loro integralità. È in questo senso che alla fine del II secolo, sant’Ireneo sottolineava con forza questa origine comune e il fine dell’unità: “Questa predicazione che ha ricevuto e questa fede che abbiamo esposto, la Chiesa, diffusa nel mondo intero, la mantiene scrupolosamente come se vivesse in un’unica casa . . . Né le Chiese che sono state fondate in Germania, o in Iberia, o presso i Celti, né quelle dell’Oriente, dell’Egitto o della Libia, o quelle che sono al centro del mondo (a Gerusalemme) non differiscono per quanto riguarda la fede o la tradizione” (cf. S. Ireneo, Adversus haereses, PG 7, pp. 550-554). È questa fedeltà che io raccomandavo nel mio discorso alla Facoltà di teologia di Kinshasa come condizione per promuovere validamente la ricerca e l’insegnamento teologico nel vostro Paese. Ho già saputo con gioia che, attualmente, molti colloqui teologici organizzati in una prospettiva africana riservano un posto importante alla Rivelazione, nelle sue espressioni bibliche ed ecclesiali.

8. Alla luce di queste riflessioni generali, molti altri problemi concreti possono ancora attirare la nostra riflessione, come ad esempio quelli della famiglia cristiana, della giustizia a livello delle strutture comunitarie, dello sviluppo e del progresso economico. Penso anche all’evangelizzazione e alla fedeltà cristiana degli ambienti intellettuali e dirigenti che giustamente vi preoccupa. E del resto voi mi parlate spesso di sette che intaccano qui e là l’unità cattolica, la qual cosa sembrerebbe sottolineare, tra le altre, la necessità di una fede più matura, più ragionata, più viva e soprattutto più cosciente del necessario riferimento apostolico.

Tutta questa opera pastorale richiede una grande unità tra tutti i Vescovi dello Zaïre. Per parte mia, sappiate che incoraggio di cuore gli sforzi meritori e concertati che mettete quotidianamente in opera per istruire il popolo di Dio e guidarlo verso la santità, per sostenere lo zelo pastorale, il discernimento e la vita spirituale dei vostri sacerdoti. Essi si consacrino totalmente a ciò che è specifico del loro ministero sacerdotale, senza partecipare direttamente alla politica che è competenza dei laici. Con loro, continuate a formare i laici alle loro diverse responsabilità ecclesiali e sociali; trascinate gli uni e gli altri nel cammino di conversione e di penitenza messo in rilievo dall’Anno Santo della Redenzione, e fortificateli tutti nella speranza che il mistero di Pasqua ci ha aperto. Continuerò a ricordare le vostre intenzioni al Signore e alla sua santa Madre. E raccomando alla vostra preghiera il ministero che mi è stato affidato per l’unità e la fedeltà di tutta la Chiesa. Di tutto cuore, vi benedico e vi domando di trasmettere la mia cordiale benedizione apostolica a tutte le vostre comunità cristiane.

 

© Copyright 1983 - Libreria Editrice Vaticana

 



Copyright © Dicastero per la Comunicazione - Libreria Editrice Vaticana