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VISITA PASTORALE A PISA, VOLTERRA E LUCCA

INCONTRO DI GIOVANNI PAOLO II
CON I PROFESSORI E CON GLI STUDENTI
NELL’AULA MAGNA DELL’UNIVERSITÀ DI PISA

Domenica, 24 settembre 1989

 

Illustri docenti,
collaboratori
e carissimi studenti dell’ateneo pisano!

1. Debbo innanzitutto esprimere un vivo ringraziamento per il saluto tanto cordiale e sincero che tutti voi qui presenti mi avete porto per il tramite del rettore magnifico, vostro rappresentante e portavoce. Al saluto rispondo con l’augurio non solo di personale benessere per ciascuno di voi, ma per le “sorti” di questa storica università, e tale augurio estendo alle comunità accademiche della scuola normale superiore e della scuola superiore di perfezionamento sant’Anna, che visiterò tra breve.

Sono davvero lieto di questo triplice incontro, e ritengo molto significativo per il mio ministero pastorale trascorrere con voi e con i colleghi di dette scuole una buona parte di questa mattinata di domenica. Dopo la sosta nella chiesa cattedrale, mi è gradito trattenermi in queste prestigiose sedi accademiche della città, le quali si configurano in cattedre di altro tipo e finalità, ma non estranee alla mia missione pastorale. Dalla cattedra della fede cristiana son passato alla cattedra delle scienze, che sono finalizzate a preparare, a formare, a innalzare l’uomo: e dov’è l’uomo, lì per un suo nativo diritto e dovere deve essere anche la Chiesa! Penso, pertanto, che l’itinerario che sto compiendo stamane possa indicare simbolicamente il cammino che connette tra loro scienza e fede.

2. Formulando i miei auspici per le “sorti” della vostra università non mi riferisco solo al suo sviluppo, al miglioramento delle sue strutture, alla sua efficienza organizzativa e amministrativa, ma soprattutto alla sua crescita “ab intus” nel rispondere con tempestività e saggezza alle sue connaturali finalità educative e formative, nell’interpretare le nuove istanze di questa nostra età, nel proporsi come imprescindibile traguardo il servizio dell’uomo.

In realtà, proprio in vista del servizio all’uomo, il discorso sul rapporto tra scienza e fede, che è tema ricorrente della problematica filosofica lungo i secoli ed oggetto di assidue e spesso sofferte riflessioni, si dimostra ancora una volta attuale ed aperto ad ulteriori, proficui approfondimenti.

Permangono, infatti, con immutata e stimolante validità gli interrogativi: sono forse contrapposti Dio e l’uomo? E se questi arriva a Dio per la via della fede, gli sarà forse precluso ogni accesso per la via della ragione? E se appartiene alla ragione promuovere la ricerca ed arrivare alla scienza, non sono forse possibili la ricerca di Dio e la scienza di Dio?

3. Questi interrogativi - che ripropongono il tema dell’“intellectus quaerens fidem” e dell’indagine che media il passaggio dalla fase del “quaerere” a quella dell’“invenire” - assumono più concreta consistenza, se vengono inquadrati e integrati nella dimensione etica. Nel suo irrinunciabile impegno di ricerca e di servizio, la scienza ha un’intrinseca moralità da rispettare: mentre gli orizzonti verso cui essa si muove appaiono sempre più vasti, l’uomo che la coltiva e la sviluppa scopre, al tempo stesso. nuovi limiti, dubbi e difficoltà. Alla luce delle esperienze fatte, dei traguardi già raggiunti o intravisti e, purtroppo, anche dei possibili pericoli, oggi più che in passato si impone il discorso sul rapporto tra ricerca ed etica. Dinanzi all’uomo di scienza, che indaga ed approfondisce per capire sempre di più e sempre meglio, si fanno vicini e quasi palpabili i misteri della natura e, prima di tutto, il mistero stesso dell’uomo. Spingendosi fin verso i confini della realtà e della vita, egli avverte come un brivido nel suo stesso osare e non può non interrogarsi, oltre che sul senso generale del proprio lavoro conoscitivo, sull’esito finale e sulla validità morale di tanto impegno. Puntando lo sguardo sulle forze più nascoste della natura ed appropriandosi delle metodologie più ardite per dominarle e utilizzarle, l’uomo avverte il rischio di sconfinamenti e abusi.

Parlo ad un uditorio esperto: posso quindi limitarmi ad accennare a fatti innegabili, quali il pericolo ecologico, l’accumulo di armi dagli effetti disastrosi, la fondatezza di certe denunce e accuse. E nel campo della vita umana, tutti conoscono i mirabili progressi della biologia e della bioingegneria, ma sono noti parimenti i pericoli di operazioni troppo ardite, che comportano forme inaccettabili di manipolazione e di alterazione. Come sapete, io stesso in varie occasioni ho richiamato l’urgenza e il dovere di procedere in materia tanto delicata con la massima cautela: il che vuol dire - senza imporre mortificanti limiti alla ricerca - rispetto delle leggi supreme della natura e della vita, adeguamento in ciascuna fase della ricerca alle esigenze derivanti dalla dignità della persona. Vuol dire, in una parola, senso di responsabilità.

4. Dinanzi a talune contraddizioni tra le finalità della conoscenza scientifica e gli esiti, a cui essa può condurre sul piano pratico, il parlare di responsabilità non può rimanere un discorso puramente teorico - come se imputata fosse la scienza in se stessa -, ma deve raggiungere i soggetti che vi sono implicati in prima persona. È non solo conveniente, ma necessario e obbligante parlare della responsabilità degli scienziati, la quale dovrà dimostrarsi nell’aderire a quell’“ordo rerum” che essi vanno via via scoprendo nella sua mirabile articolazione, nel rispettare la trascendenza ontologica della persona sugli altri esseri del mondo della natura, quando ad essa applicano gli strumenti della ricerca scientifica, nel tener conto infine delle conseguenze che possono avere, sul piano applicativo, le conoscenze raggiunte o raggiungibili in ambito puramente teorico.

Stiamo vivendo purtroppo un’esperienza inedita e terribile: quella di un grave deterioramento ecologico, imputabile non già ad agenti esterni, ma all’incongruenza di certi nostri comportamenti. Proprio una tale esperienza, lungi dall’allontanarci, deve piuttosto avvicinarci e ricondurci al centro della nostra esistenza, poiché ripropone imperativamente il tema del senso della vita e del nostro essere nel mondo. Lo scienziato, dalle sue stesse indagini e scoperte e dalle applicazioni che se ne fanno, è posto come dinanzi ad un bivio, in quanto egli ed il frutto del suo lavoro possono favorire o danneggiare l’uomo: a lui prima che agli altri si presenta in maniera del tutto particolare, ineludibile e, direi anche, preliminare l’istanza etica. Prima ancora che si accinga al suo specifico lavoro, a lui può esser riferito l’invito di sant’Agostino che, se non fu scienziato nel senso moderno del termine, fu finissimo pensatore e indagatore appassionato della verità: “Noli foras ire; in te ipsum redi; in interiore homine habitat veritas” (De vera religione 39, 72: PL 34, 154). Unitamente, anzi anteriormente all’approccio esterno con le cose, gli è necessario un attento e penetrante sguardo in se stesso per valutare modi e forme, mezzi e fini della sua attività. Da un tale esame risulterà più sicuro e più maturo il senso veramente personale della sua responsabilità di uomo, di studioso e di ricercatore.

5. Oggi si lamenta da parte degli stessi scienziati la “parcellizzazione specialistica” e giustamente si afferma l’esigenza di nuove sintesi in grado di connettere la pluralità delle acquisizioni, delle cognizioni, delle tecniche che si accumulano con sorprendente rapidità nei vari ambiti disciplinari e sub-disciplinari. Ma se è vero che la scienza non si limita a osservare e a catalogare, ma interviene sui processi per trasformare il reale - e si tratta a volte di interventi radicali che possono anche intaccare i ritmi naturali e introdurre gravi disordini nell’assetto del mondo -, non ci saranno nuove sintesi valide se non si integrano in esse il senso autentico della vita ed una compiuta visione etica. Di fronte ai perduranti misteri del microcosmo e del macrocosmo, cresce nonostante i prodigi delle scienze e delle tecnologie la coscienza della “finitudine” delle forze umane, e le certezze della ragione, pur reali e solide, ad un certo punto si arrestano, così che si è indotti ad invocare, per sciogliere i dubbi e per risolvere i problemi drammatici, l’approdo ad altre certezze, basate su una diversa scala di valori regolata dall’amore ed illuminata dalla fede.

Mentre si ridimensionano certe promesse eccessive della cosiddetta “speranza tecnologica” e declinano le concezioni di un benessere imperniato su falsi valori, s’avverte l’urgente necessità di un’operazione di ricupero. Tocca primariamente a voi, come studiosi e ricercatori, distinguervi in questo orientamento. Ne guadagnerà la qualità del vostro lavoro e - grande elemento morale da considerare - la dignità umana della scienza.

6. La mia non vuol essere una riflessione limitativa di quella giusta libertà o “legittima autonomia” (è parola del Concilio Vaticano II), di cui deve godere chi come voi è impegnato o, per dir meglio, implicato nella ricerca sulle frontiere avanzate della scienza contemporanea. Tutt’altro! La Chiesa ha fiducia, promuove e incoraggia il vostro impegno. Mi piace ricordarvi in proposito una breve espressione dello stesso Concilio: “Applicandosi allo studio delle varie discipline, quali la filosofia, la storia, la matematica, le scienze naturali e occupandosi delle arti, l’uomo può contribuire moltissimo ad elevare la famiglia umana alle più alte ragioni del vero, del buono e del bello” (Gaudium et Spes, 57).

Vi parlavo all’inizio di connessione tra la chiesa cattedrale e le cattedre di scienze di cui si compone questa università: anche l’uomo di scienza è chiamato ad esercitare un “suo” sacerdozio. Sì, in un certo senso ogni vero scienziato è un sacerdote: quel fine che il Signore Dio ha assegnato al primo uomo al momento della creazione e che si ripropone con indubbia rilevanza etica ad ogni uomo che viene a questo mondo - essere dominatore del creato - ha una applicazione particolare e privilegiata per l’uomo di scienza. Proprio perché vede meglio e di più, più stringente è il suo dovere, da una parte, di riconoscere, lodare, ammirare, ringraziare Dio nelle opere della sua creazione e, dall’altra, di fare un uso retto e responsabile del proprio ingegno e delle conquiste piccole e grandi che ne sono il frutto.

Proprio da una lettura che la liturgia assegna a questo giorno mi piace ricavare lo spunto conclusivo del mio saluto. In una lettera al discepolo Timoteo san Paolo afferma che è volontà di Dio “che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità” (1 Tm 2, 4). Nel cammino, lungo e faticoso, di avvicinamento alla verità, la Provvidenza ha assegnato un ruolo anche a voi, illustri docenti e cari studenti dell’ateneo pisano, sulle orme dei maestri insigni che qui insegnarono e vissero: primo fra tutti il sommo Galileo Galilei, poi la folta schiera di clinici e matematici e, in età a noi più vicina, sociologi come Giuseppe Toniolo, fisici come Enrico Fermi e tanti altri cultori delle scienze umane.

Con la verità ricercata, amata, difesa, proclamata, procederà parallelamente l’opera umano-divina, temporale ed escatologica, della salvezza. Né solo per voi, ma anche per ogni altro uomo, che voi giustamente sentite come vostro collega, come vostro studente, allievo, ma sempre come vostro fratello.  

Prima di congedarsi dalla comunità universitaria il Papa così si rivolge ai giovani universitari.

Vi ringrazio per la vostra presenza, cari studenti, care studentesse, e vi auguro di essere parte costitutiva di questa comunità universitaria come lo è stato per tanti secoli, dall’inizio della sua fondazione. Vi auguro di approfittare per voi stessi, certamente, per la vostra formazione intellettuale, culturale, morale, religiosa ma anche per il bene degli altri. Il principio fondamentale che riguarda la persona umana è che non si vive per se stessi ma si vive per gli altri e io dico anche che non si studia per se stessi solamente ma si studia per gli altri, per i vicini e per i lontani, per la vostra patria e per l’umanità intera.

 

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