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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
DURANTE LA VISITA ALL’OSPEDALE ROMANO DI SAN GIOVANNI

Sabato, 25 aprile 1992

 

Carissimi fratelli e sorelle!

1. Sono molto grato a coloro che mi hanno rivolto un così cordiale saluto a nome di tutta la comunità dell’Ospedale San Giovanni: a nome dei malati e insieme di tutti coloro che sono responsabilmente e generosamente al loro servizio. Questa visita pastorale del Vescovo di Roma è stata ugualmente desiderata da voi e da me. Essa si svolge in un giorno particolarmente felice per la comunità credente: il sabato dell’Ottava di Pasqua. Per otto giorni la Chiesa esprime intensamente la gioia per la risurrezione del suo Capo e Maestro Gesù, esaltando con il grido festoso dell’“Alleluia” la sua vittoria sul peccato e sulla morte. Nei racconti evangelici relativi a ciò che accadde subito dopo il sabato del riposo nel sepolcro, Gesù viene chiamato “il Vivente”: “Perché cercate tra i morti colui che è il vivente? Non è qui, è risuscitato” (Lc 24, 5). Gesù aveva definito se stesso “la vita”. Giovanni nel suo Vangelo ha registrato due espressioni molto esplicite. Una dice: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6); l’altra dice “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11, 25). La Pasqua è la conferma di tutto questo. Gesù è il Figlio di Dio che si è fatto uomo, ha vissuto e predicato, ha sofferto, è morto ed è risorto con un solo scopo: che tutti da Lui “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10, 10).

2. La vita, di cui parla Gesù, è quella dei figli adottivi di Dio, la vita della grazia o vita eterna, per sua natura interminabile e beata. Noi la riceviamo in dono nel battesimo, diventando nuove creature. Essa viene consolidata e accresciuta attraverso gli altri sacramenti della nuova Alleanza, la cui efficacia è subordinata alla nostra libera accettazione e alla nostra perseveranza nella sequela di Gesù Redentore. Essa avrà la sua piena manifestazione al di là della nostra vicenda terrena, quando, “asciugata ogni lacrima, i nostri occhi vedranno il suo volto e noi saremo simili a Lui e canteremo per sempre la sua lode” (Preghiera eucaristica III).

3. È chiaro, tuttavia, che Gesù non ha dedicato il suo “Vangelo della vita” soltanto all’al di là. Gesù vuole che i suoi fratelli vivano la loro vita nel tempo, lottando contro ogni forma di morte. Se non è possibile eliminare la morte fisica, alla quale egli stesso volle sottomettersi, facendone il massimo segno di amore e di redenzione e offrendo a tutti la possibilità di renderla tale in unione con Lui, è però possibile vincere molte forme di morte fisica e spirituale, che insidiano la vita umana. Gesù ha comandato ai suoi di vivere lottando per la vita e contro la morte, nel momento stesso in cui ha proclamato il “suo comandamento”: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34-35). Amore significa dare la vita, significa lottare per la vita, significa sostenere e difendere ogni vita, significa offrire la propria vita per la vita.

4. Ed ecco l’Ospedale: una struttura di servizio alla vita e perciò una struttura di amore. Nel servizio sanitario si compie quanto ha detto Gesù: “Ero malato e mi avete curato... [perché] ogni volta che avete fatto questo anche al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me” (Mt 25, 36. 40). È segno di civiltà, è segno di cristianesimo avere cura dei malati. In questa attività, l’uomo riconosce il suo simile, il fratello riconosce il fratello, e attua la regola d’oro espressa da Gesù con queste parole; “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7, 12). Nella moderna organizzazione della società civile, la cura dei malati, che in altri tempi era lasciata all’iniziativa delle famiglie e del volontariato religioso, è stata assunta dalle strutture pubbliche, con consapevolezza degna del più alto elogio. Ma guai se, dopo aver organizzato un servizio sanitario nazionale, venisse a mancare il senso di responsabilità personale! La presenza della struttura pubblica non disimpegna i singoli da quella partecipazione attiva e da quel sentimento umano ai quali i malati hanno diritto non meno che alla cure fisiche, in conseguenza delle loro condizioni di umana sofferenza, che talvolta rasentano la desolazione!

5. Il “Vangelo della vita” può essere minacciato proprio all’interno di una struttura ospedaliera, se non si vigila sulle passioni, sull’egoismo, sugli interessi dell’individualismo e del consumismo imperante. Di qui l’invito, che sento di dover rivolgere a tutti, a proclamare il “Vangelo della vita”: ai malati, nell’imitazione paziente di Gesù sofferente; agli operatori sanitari, nell’imitazione di Gesù “buon Samaritano” dell’umanità; agli amministratori, ai tecnici, ai politici, nell’imitazione del Padre celeste, che provvede a tutti con generosità disinteressata, non trascurando i dettagli, ben sapendo che a beneficiarne o a soffrirne è l’uomo, immagine di Dio e fratello di Gesù Cristo.

6. I questo momento, il “mondo della malattia” è sottoposto un po’ dappertutto a critiche e rivendicazioni. Si lamentano ritardi nella legislazione, lentezze burocratiche, inefficienza organizzativa, contrasti tra gli operatori, disinteresse di molti, carenze strutturali. Urgono di certo miglioramenti sul piano legislativo e funzionale. Tuttavia il problema principale rimane legato alla coscienza, ai valori morali, al senso di responsabilità, alle motivazioni umane e cristiane degli operatori del servizio sanitario. Anzitutto su questo fronte occorre un deciso miglioramento, una sorta di conversione, affinché donne e uomini nuovi, trasformati dallo spirito della Pasqua, realizzino una nuova presenza di amore e di servizio accanto all’uomo sofferente. A questo intende offrire un importante contributo anche il Sinodo diocesano di Roma, che, nelle prossime settimane, nel quadro del “confronto con la Città”, darà vita a un seminario di studio su “La tutela della salute a Roma”. La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire. Ma può raccogliere il grido dei sofferenti, le proposte dei più sensibili, e farsene eco presso i responsabili della sanità. Soprattutto, può rilanciare il significato umano e cristiano di un modo sempre più accurato, delicato e responsabile di accudire ai malati e di proteggere, con la vita, la loro umanità.

7. Questo Ospedale San Giovanni ha alle sue spalle una storia memorabile. Nato, nel secolo XIII, come Ospizio per i poveri e i malati della Città, è diventato, nel secolo XVII, l’Ospedale della Chiesa di Roma per la cura delle membra sofferenti della comunità, da oltre 150 anni vede in servizio religioso i Padri Camilliani - glorioso Ordine ospedaliero che quest’anno celebra i suoi 400 anni di vita - e da molti decenni, in cure infermieristiche e assistenziali, le benemerite Suore della Misericordia. Con essi voglio ricordare i numerosi volontari che si prodigano con spirito cristiano nell’assistenza ai malati, le Associazioni professionali cattoliche AMCI ed ACOS che si impegnano a sensibilizzare cristianamente i loro associati, e il Consiglio pastorale, primo ad essersi costituito in ambito ospedaliero, per una presenza viva della Chiesa locale di Roma tra i tanti malati che qui giungono, non solo da Roma, ma da molte altre parti d’Italia. Unitamente al mio Vicario per Roma, Cardinale Camillo Ruini, e al Vescovo per la pastorale sanitaria, Monsignor Luca Brandolini, esprimo tutto il mio affetto ai cari dirigenti e un vivo elogio e ringraziamento alle Autorità sanitarie, civili, amministrative, ai medici, al personale paramedico, e a tutti coloro che in qualsiasi modo cooperano al buon funzionamento di questo Ospedale.

Su tutti invoco da Cristo risorto copiosi doni di gioia e di pace, in pegno dei quali imparto con affetto a voi qui presenti e a quanti vi sono cari la mia benedizione.

 

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