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  DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PRESULI DELLE REGIONI OCCIDENTALI DEL CANADA 
IN OCCASIONE DELLA VISITA 
«AD LIMINA APOSTOLORUM»

Sabato, 30 ottobre 1999

 

Cari Fratelli nell'Episcopato,

1. Nell'amore di Cristo, per mezzo del quale "abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato" (Rm 1, 5), porgo il benvenuto a voi, Vescovi di Alberta, British Columbia, Manitoba, Saskatchewan, dei Territori del Nord-Ovest, dello Yukon e del nuovo territorio di Nunavit, mentre compite la vostra visita ad limina Apostolorum. Il ministero che abbiamo ricevuto comporta non solo grandi gioie, ma talvolta anche gravosi fardelli e addirittura dispiaceri. Tutto questo voi lo portate presso le tombe degli apostoli, per poter imparare ancora una volta dalla loro testimonianza eterna che, quali che siano i fardelli e i dispiaceri, il ministero apostolico che abbiamo ricevuto è una grande gioia per noi e per tutto il Popolo di Dio, poiché non è altro che la gioia di predicare il Vangelo, che è "potenza di Dio per la salvezza" (Rm 1, 16). Rivivendo questa gioia qui a Roma, riaffermate il vincolo di comunione gerarchica con il Successore di Pietro e l'intero Collegio dei Vescovi, che rappresenta il segno e la salvaguardia più sicura dell'unità della Chiesa e della sua perseveranza nella fede una, santa, cattolica e apostolica.

2. L'approssimarsi del Grande Giubileo e del nuovo millennio ci esorta a meditare sul mistero del tempo, che è di fondamentale importanza nella Rivelazione e nella teologia cristiana (cfr Tertio Millennio adveniente, n. 10). É così, perché il mondo è stato creato nel tempo e perché nel tempo si rivela il piano di Dio per la salvezza del mondo, che ha il suo culmine nell'Incarnazione del Figlio di Dio. Poiché il tempo è l'ambito sia della creazione sia della redenzione, che si realizzano pienamente in Cristo, possiamo affermare che nel "Verbo incarnato, il tempo diventa una dimensione di Dio, che in se stesso è eterno" (Ibidem). Da ciò nasce il dovere della Chiesa di santificare il tempo, cosa che essa fa in modo particolare nella commemorazione liturgica degli eventi della storia della salvezza e nella celebrazione di occasioni e anniversari speciali. Questa santificazione del tempo rappresenta il riconoscimento della verità proclamata dalla Chiesa alla vigilia di Pasqua, che tutti i tempi e tutte le ere appartengono a Cristo (cfr Liturgia della luce) "Cristo è il Signore del tempo; è il suo principio e il suo compimento; ogni anno, ogni giorno ed ogni momento sono abbracciati dalla sua Incarnazione e Risurrezione, per ritrovarsi in questo modo nella "pienezza del tempo"" (Tertio Millennio adveniente, n. 10; cfr Incarnationis mysterium, n 1; cfr Dies Domini, n. 15). Per santificare il tempo occorre quindi riconoscere ciò che Dio ha fatto del tempo in Gesù e come nel Mistero Pasquale il tempo stesso sia trasfigurato.

Per la terra irredenta, il tempo è sempre motivo di paura, perché conduce inesorabilmente all'esperienza della limitatezza della vita e all'enigma della morte. Ogni religione, quindi, affronta in qualche modo gli interrogativi più elementari:  Cos'è l'uomo? Qual è lo scopo della vita? Che cosa c'è dopo l'esistenza terrena? (cfr Gaudium et spes, n. 10). Nella Risurrezione di Gesù Cristo la paura del tempo è vinta una volta per tutte, poiché se la morte perde il suo pungiglione al momento della Pasqua (cfr 1 Cor 15, 55), allora lo perde anche il tempo. É la Risurrezione a fare crollare la barriera apparentemente impenetrabile tra il tempo e l'eternità e a dischiudere il cammino all'esperienza piena del tempo come dono e sfida. In tal senso, san Paolo esorta i seguaci di Cristo a profittare "del tempo presente, perché i giorni sono cattivi" (Ef 5, 16). Questa esortazione è particolarmente significativa se applicata alle responsabilità del Vescovo per la vita della comunità cristiana affidata alle sue cure.

3. Infine, è motivo dell'Incarnazione e della visione sacramentale che essa comporta (cfr Orientale lumen, n. 11) che la Chiesa è immersa così profondamente nel mondo, nel tempo e quindi in tutte le cose umane. Poiché il Verbo si è incarnato, il corpo umano è importante e lo sono le condizioni fisiche, sociali e culturale dalla famiglia umana. Poiché il Verbo si è incarnato nel tempo, la storia umana è importante; la vita quotidiana degli uomini e delle donne è importante. In questa prospettiva, possiamo affermare che la Chiesa è "del mondo" in senso molto positivo, proprio come Dio fu del mondo quando mandò suo Figlio in mezzo a noi come uomo. Essere del mondo in questo modo significa che la Chiesa s'impegna pienamente nella storia e nella cultura, ma per trasformarle, per cambiare la paura in gioia con la forza del Vangelo.

Tuttavia, il cristianesimo è anche escatologia. Il Nuovo Testamento non lascia alcun dubbio sul fatto che questi siano "gli ultimi giorni", che il mondo, così come noi lo conosciamo, passa e che quindi non è in alcun modo assoluto né tantomeno divino. É vero che anche nel Nuovo Testamento notiamo i segni dell'indebolimento del primo fervore escatologico quando si affievolisce la speranza iniziale di un ritorno imminente del Signore. Nonostante questa riformulazione della speranza escatologica, la Chiesa non ha mai cessato di attendere il ritorno del Signore, che segnerà la fine del mondo, ma anche il pieno compimento della sua redenzione. Pertanto, la concezione cristiana della domenica come "ottavo giorno", che attinge al ricco simbolismo escatologico del sabbath ebreo per evocare "l'era che verrà" (cfr Dies Domini, n 26), non ci ricorda solo l'inizio, quando Dio ha creato tutte le cose, ma indica la fine, quando egli ricapitolerà tutte le cose in Cristo (cfr Ef 1, 10).

La vita cristiana comprende quindi elementi sia dell'incarnazione sia escatologici; la nostra principale preoccupazione come Pastori è quella di assicurare che vi sia un equilibrio tra essi, che le Chiese che presiediamo nel nome di Cristo non siano né troppo del mondo né troppo lontane dal mondo, che siano "nel mondo ma non del mondo" (cfr Gv 17, 11, 15-16). A tale proposito è importante la questione del rapporto tra la Chiesa e il mondo, che è stato un tema fondamentale del Concilio Vaticano II e che rimane centrale nella vita della Chiesa all'alba del nuovo millennio, anche nel vostro Paese. La risposta che daremo a tale domanda determinerà il percorso che tracceremo per risolvere molte altre pressanti questioni.

4. Come Pastori, dobbiamo guidare il gregge di Cristo lungo un cammino che deve evitare la tentazione di eliminare o di accrescere esageratamente la separazione fra la Chiesa e il mondo, fra il messaggio cristiano e la cultura che prevale nel mondo attuale; il Vangelo non ci insegna né la soppressione né l'esagerazione; né l'una né l'altra è fedele all'insegnamento del Concilio e non può essere la via del futuro che Dio ha in mente per la Chiesa. Abbiamo bisogno di un'altra via, e l'insegnamento di Papa Paolo VI può aiutarci a trovarla. L'Enciclica Ecclesiam suam è spesso stata considerata a giusto titolo "l'Enciclica del dialogo", in quanto mette in evidenza con molti dettagli ciò che Papa Paolo VI descriveva come l'"atteggiamento" che la Chiesa dovrebbe assumere in questo periodo della storia del mondo (cfr c. III), un atteggiamento che comporta allo stesso tempo uno stile e un metodo per raggiungere la società moderna. Certo, le circostanze sono cambiate rispetto agli anni in cui l'Enciclica Ecclesiam suam è stata scritta, ma il suo insegnamento sul dialogo della Chiesa con il mondo è oggi tanto pertinente quanto lo era nel 1964. 

Paolo VI ha utilizzato l'espressione colloquium salutis. Questo dialogo (colloquium) ha il suo fondamento su ciò che scriveva san Giovanni:  "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna". (Gv 3, 16). La Chiesa ha per gli uomini e le donne di tutti i tempi e di tutti i luoghi un dono prezioso che non può mancare di offrire loro, anche quando la sua offerta è mal compresa o rifiutata.

5. Parte integrante di questo dono è la verità sulla persona umana, creata a immagine di Dio, verità pienamente rivelata in Gesù Cristo e affidata alla Chiesa. Noi Vescovi, soprattutto, non dobbiamo mai perdere la fiducia nella chiamata che abbiamo ricevuto a servire umilmente e risolutamente questa verità in quanto maestri e Pastori chiamati a difendere la verità e a diffonderla in un momento cruciale della storia, allorché nuove conoscenze, nuove tecnologie e un benessere materiale senza precedenti portano a entrare in un "mondo nuovo" di responsabilità e di sviluppo umani. La prima difesa da effettuare è quella della dignità inalienabile e del valore della vita stessa. Come avete sottolineato nei vostri insegnamenti, il "Vangelo della vita" per i cristiani non è una semplice opinione; è una dimensione essenziale della nostra obbedienza a Dio. Ognuno ha il serio obbligo di essere al servizio di questo Vangelo:  "tutti siamo coinvolti e partecipi, con l'ineludibile responsabilità di scegliere incondizionatamente a favore della vita" (Evangelium vitae, n. 28). Nella catechesi, nell'educazione, nell'ambito della ricerca e della pratica mediche, fra i legislatori e i responsabili della vita pubblica, così come nei mezzi di comunicazione sociale, si deve compiere un grande sforzo per presentare il "Vangelo della vita" in tutta la forza della sua verità.

Come Pastori, siamo pienamente consapevoli del fatto che oggi numerose verità si fanno udire sulle questioni fondamentali del comportamento umano, di modo che, in molti casi, le esortazioni e l'insegnamento della morale cristiana diventano ardui combattimenti. Molti fra voi mi hanno detto quanto sono stati aiutati nel grande compito della formazione dal Catechismo della Chiesa Cattolica. Questo compendio dell'insegnamento della Chiesa può essere uno strumento molto efficace per trasmettere una profonda e solida conoscenza della fede e regole di vita cristiana, nelle parrocchie, nelle scuole, nelle università e nei seminari. Nel corso degli ultimi decenni, vi sono stati casi in cui gli sforzi per rendere le verità della fede più accessibili, soprattutto nella catechesi dei bambini e dei giovani, hanno portato a svuotare il messaggio cristiano della sua essenza e della sua potenza. Non vi è senza dubbio nulla di più urgente nel nostro ministero pastorale, nulla per il quale abbiamo una più grande responsabilità di fronte al Signore, del garantire la trasmissione della fede che ci è stata trasmessa dagli Apostoli.

6. Insegnare la fede ed evangelizzare significa proclamare al mondo una verità assoluta e universale; dobbiamo però parlare in modi appropriati e significativi, che rendano le persone ricettive a tale verità. Riflettendo su ciò che questo comporta, Paolo VI ha specificato quattro qualità, che egli definisce perspicuitas, lenitas, fiducia, prudentia - chiarezza, umanità, fiducia e prudenza (Ecclesiam Suam, n. 81).

Parlare con chiarezza significa che occorre spiegare in modo comprensibile la verità della Rivelazione e gli insegnamenti della Chiesa. Non dovremmo solo ripetere, ma spiegare. In altri termini, abbiamo bisogno di una nuova apologetica, in sintonia con le esigenze attuali, che tenga presente che il nostro compito non è quello di prevalere nelle discussioni ma di conquistare le anime, di impegnarci non in dispute ideologiche, ma nella difesa e nella promozione del Vangelo. 

Tale apologetica avrà bisogno di una "grammatica" comune con coloro che vedono le cose in modo differente e non condividono le nostre asserzioni, per evitare di usare linguaggi diversi anche se parliamo la stessa lingua.

La nuova apologetica dovrà respirare anche uno spirito di umanità, quell'umiltà compassionevole che capisce le ansie e gli interrogativi delle persone e che non si affretta a vedere in esse cattiva volontà o fede. Al contempo essa non lascerà prevalere un senso sentimentale dell'amore e della compassione di Cristo scisso dalla verità, ma insisterà sul fatto che l'amore e la compassione autentici pongono richieste radicali, proprio perché sono inscindibili dalla verità che, sola, ci rende liberi (cfr Gv 8, 32).

Parlare con fiducia significherà che, per quanto gli altri possono negare la nostra competenza specifica o rimproverarci per le mancanze dei membri della Chiesa, non dobbiamo mai perdere di vista il fatto che il Vangelo di Gesù Cristo è la verità alla quale tutte le persone anelano, per quanto esse possano apparire distanti, reticenti od ostili.

Infine, la prudenza, che Papa Paolo VI definisce saggezza pratica e buon senso, e che Gregorio Magno ritiene la virtù degli arditi (Moralia 22, 1), significherà che dobbiamo dare una risposta concreta a chi ci chiede:  "Che cosa dobbiamo fare?" (Lc 3, 10; 12; 14). Papa Paolo VI concluse affermando che parlare con perspicuitas, lenitas, fiducia e prudentia "ci renderà saggi; ci renderà maestri" (Ecclesiam suam, n. 83). É a questo che siamo chiamati, cari Fratelli, innanzitutto ad essere maestri della verità che non cessano mai di pregare per "la grazia di vedere la vita nella sua completezza e la forza di parlare di essa in modo efficace" (Gregorio Magno, In Ezechielem, I, 11, 6).

7. Quella che noi insegniamo non è una verità di nostra invenzione, ma una verità rivelata, giunta a noi attraverso Cristo come dono incomparabile. Siamo inviati a proclamare questa verità e a esortare coloro che ci ascoltano a quella che l'apostolo Paolo definisce "obbedienza alla fede" (Rm 1, 5). 

Possano i martiri canadesi, il cui ricordo celebrate con gioia particolare nel 350º anniversario della loro morte, non cessare mai d'insegnare ai fedeli di Cristo in Canada la verità di questa obbedienza e di questa morte a se stessi al fine di vivere per Cristo! 

Possano essi insegnare alla Chiesa in Canada il mistero della Croce, e possa il seme del loro sacrificio produrre un raccolto abbondanti nei cuori canadesi! Affido l'intera comunità di Dio nel vostro Paese all'intercessione della Vergine Maria, Regina degli Apostoli e Regina dei Martiri, e alla protezione di san Giuseppe, suo sposo. A voi, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose e ai fedeli laici delle vostre Diocesi imparto di cuore la mia Benedizione Apostolica.

 

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